La discesa dei consumi sembrava quasi già un lontano ricordo. Invece l’ultimo bollettino Istat registra una nuova e inattesa frenata. Secondo l’Istituto, il fatturato dell’industria italiana a marzo ha segnato un calo del 3,6% rispetto all’anno precedente, peggior dato dal 2013.
A trascinare l’indice verso il ribasso sono stati in particolare il crollo delle attività estrattive (-39,5%) e della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-22,4%).
Negli ultimi cinque anni il consumo interno lordo di energia in Italia è sceso di oltre il 10%. Un trend che, per la verità, con la sola eccezione del 2010, prosegue senza soste dal 2005.
È un dato negativo? Niente affatto. Gli esperti più coscienziosi spiegano che si tratta di un “disaccoppiamento” tra l’andamento del consumo dell’energia e quello del PIL. In altre parole non vale più la regola che per produrre nuova ricchezza nel Paese è indispensabile utilizzare energia. La spiegazione di questo “disaccoppiamento” sta nel miglioramento dell’efficienza energetica, frutto anche, forse soprattutto, del crescente utilizzo di fonti di energia rinnovabile.
Eppure tutte le maggiori testate giornalistiche e reti televisive nazionali, senza distinzioni, hanno dato la notizia con toni e volti funerei. Possibile che nessuno ha ancora parlato a mezzi busti, cronisti, analisti, corsivisti ed editorialisti del mio Stivale la teoria del “disaccoppiamento”?
Considerare solo gli aspetti negativi dei cali nei fatturati dell’industria energetica o estrattiva significa tutelare gli attuali modelli insostenibili di utilizzo delle risorse.
Oltre che nell’energia è giunto il momento di introdurre il concetto di rinnovabilità anche nell’informazione.
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