Sono in piedi di fronte a una leggenda vivente dell’alpinismo patagonico per un attimo rimango senza parole, non nascondo la mia emozione. Ci incontriamo in un bar di Pinzolo a pochi minuti da Massimeno, il più piccolo comune del Trentino e che vanta tra i suoi abitanti Ermanno Salvaterra. Primo uomo a salire in inverno sul punto più irraggiungibile del nostro Pianeta, il suo amore, il Cerro Torre (1985, Spigolo Sud-Est). Nato tra le montagne del Trentino, per anni con la sua famiglia ha gestito il rifugio XII Apostoli sulle Dolomiti di Brenta. Che indossi i sandali in questa azzurra e gelida giornata d’inverno quindi non stupisce.
di Catia Baldassarri
Entriamo nel bar. Qui Ermanno non sembra sentirsi del tutto a proprio agio, ci spostiamo allora sui tavolini all’aperto da cui può facilmente indicarmi la cima della montagna sulla quale è salito ieri. «Non sono uno che rimane fermo io». Non so perché ma ne avevo avuto il sospetto. In un incontro fortunato qualche tempo addietro avevo avuto l’opportunità di conoscere un suo affezionato professore dei tempi della scuola, Giuseppe Ciachi. Bibliotecario di Pinzolo e memoria storica dell’alta valle della Sarca. Mi aveva parlato di questo fiume del Trentino occidentale, delle meravigliose leggende che su di lui si narrano: dapprima tumultuoso spartiacque scorre tra le alte vette dell’Adamello e le iconiche guglie dolomitiche del Brenta e infine sinuoso e antropizzato si getta nel Lago di Garda. E poiché il fiume scorre insieme alle vicende degli uomini, anch’esse così uniche e peculiari, Giuseppe aveva finito per parlarmi delle vite di illustri scalatori a cui questo territorio, circondato di picchi e pareti verticali e scoscese, ha dato i natali.
Così mi aveva incuriosito «Ermanno nella sua casa qui vicino a Pinzolo si prende cura di un capriolo». Quella frase aveva continuato a ronzarmi in testa e ora qui davanti ad Ermanno non potevo più trattenermi dal chiedere. «Il capriolo non c’è più, mi vengono le lacrime a gli occhi a pensarci ma abbiamo dovuto sopprimerlo. È caduto su una lastra di ghiaccio inclinata che si era formata proprio dietro casa. Si è rialzato usando solamente le zampe anteriori senza appoggiare l’unica zampa che aveva di dietro. Ho capito subito che qualcosa di grave era successo. È rimasto per un mese chiuso nella casetta di legno che gli avevo costruito e nella quale prima d’allora l’avevo visto andare pochissime volte. Ogni giorno vedevo nei suoi occhi e sentivo dai suoi lamenti che era sofferenza fisica quella che provava. Non potevo più sopportarlo. A niente sono servite le cure dei veterinari che non hanno neppure saputo dirmi cosa esattamente fosse successo con quella caduta. Sopprimerlo è stato un enorme dispiacere e se ci penso mi viene ancora da piangere».
Mi colpisce molto la dolcezza con cui Ermano parla di questo animale che per caso era entrato nella sua vita e a cui aveva profuso per anni cure quotidiane. Un arrampicatore patagonico, la cui passione per la montagna gli aveva fatto affrontare tutte le prova che gli elementi naturali gli avessero sottoposto aveva stretto un legame di forte empatia con quell’animale costretto ad una vita non più libera nella natura. Come lo capiva… e cosa avrebbe fatto se fosse toccata a lui una sorte tanto crudele?
«Mirtillo viveva con me e con mia moglie da cinque anni. Un giorno di giugno mi trovavo ad Arco per arrampicare con un mio compagno, quando ricevo una telefonata: è un maestro di sci come me, un cacciatore, un amico delle mie zone a chiamami. La sera avanti, non lontano da casa, si era imbattuto in una femmina di capriolo che si comportava in uno strano modo. Stanco dal lavoro era tornato a casa, aveva cenato ma non era tranquillo allora aveva deciso di uscire e tornare là dove aveva visto il capriolo. In effetti si trovava ancora lì ai bordi di un prato sfalciato di recente. Si era avvicinato e solo allora aveva capito di cosa si trattasse: la madre non poteva allontanarsi dal suo piccolo che era stato ferito durante lo sfalcio del prato».
La pratica dello sfalcio viene effettuata annualmente su questi territori montani del Trentino. Se effettuati secondo adeguati criteri, che significa opportuna altezza dal suolo, periodo dell’anno appropriato, vale a dire dopo la fioritura, blanda o totale assenza di concimazione, questi tagli permettono la conservazione della ricchezza delle specie vegetali di cui sono costituiti i prati di montagna.
«Non di rado – continua Ermanno – capita che durante lo sfalcio i piccoli di capriolo vengano uccisi o feriti. I prati alti infatti offrono un rifugio sicuro per i piccoli che rimangono così nascosti agli occhi dei predatori come ad esempio le volpi. Da piccoli i caprioli sono inodori quindi se non visti sono al sicuro e le madri possono allontanarsi in cerca di cibo.»
Ed è qui che Ermanno mi stupisce raccontandomi un sistema straordinariamente semplice quanto efficace che mi fa capire da un lato come la coesistenza con la fauna selvatica sia nella cultura delle genti che abitano questi territori di montagna e dall’altro come sia vitale tramandare il patrimonio di conoscenze custodito da chi vive e lavora a contatto con questi luoghi ad elevata naturalità.
«Quando devo sfalciare i prati dietro casa mia sono solito usare un accorgimento per capire se ci sono cuccioli di capriolo nascosti dalle madri nel prato: siccome a vista è impossibile individuarli io utilizzo un filo d’erba arrotolato tra i pollici. Soffiandoci dentro produco un suono molto simile a quello del cucciolo di capriolo. Se la madre arriva in vista vuol dire che è accorsa al richiamo e quindi che ci sono i cuccioli fra l’erba alta. Questo significa che per quel giorno la falciatrice non uscirà dalla legnaia».
Dopo avermi lasciata a bocca aperta, Ermanno torna al racconto di quella giornata di qualche anno addietro «“Vuoi provare a salvarlo?” Questo mi aveva chiesto al telefono il mio collega maestro di sci. La sera precedente infatti aveva alla fine deciso di portare da un veterinario il cucciolo ferito vedendo che la madre ne aveva un altro a cui dare il suo latte».
Ermanno non può dire di no, ottenute le autorizzazioni necessarie in caso di fauna selvatica, porta il cucciolo a casa sua. Riesce a nutrirlo con latte di capra. Il piccolo capriolo supera la prima difficile nottata e il veterinario dà alla povera bestiola qualche speranza di salvezza. L’operazione è possibile. Al capriolo viene amputata la zampa spezzata. Nel mese successivo Mirtillo vivrà dentro casa assieme ad Ermanno e alla moglie che gli daranno il latte ogni sei ore. Seguiranno 5 anni di intensa amicizia tra il capriolo e l’alpinista.
Alla fine di questo racconto di empatia per gli animali selvatici, dato che il territorio in cui vive Ermanno è anche terra di orsi non posso esimermi dal chiedergli se lui l’orso l’abbia mai incontrato su questi monti.
«Si può dire che sia stato l’orso a trovare me. È arrivato dal bosco fin sulla radura in cui ho costruito la mia casa. Si è affacciato col suo muso rotondo e il suo corpo altrettanto rotondo. Non ho avuto paura per me ma temevo che ne avessero le mie bestie il cane, la capra e il capriolo ma non si è avvicinato. Anzi si è allontanato dalla casa, mentre uscivo ho fatto appena in tempo a seguirlo per un poco con lo sguardo mentre scompariva nel bosco.»
Perché una rubrica sulla coesistenza basata su interviste agli alpinisti?
Alpinisti. Questo gruppo particolare di frequentatori della montagna ha delle caratteristiche piuttosto peculiari. Molti di loro ci fanno sognare con racconti di avventure mirabolanti vissute tra gli scenari più belli che si possano immaginare. Uomini e donne che decidono di appendere la loro vita ad un filo per sentirsi parte di quella meraviglia. Per viverla appieno. Per sperimentare la furia delle tempeste e il calore del primo raggio di sole che colpisce i loro corpi infreddoliti.
Una ascensione è una immersione nella natura, è diventare parte della natura, è vivere la natura senza (o ridotti) filtri sociali così come fanno gli altri esseri viventi del pianeta, come fanno gli animali selvatici.
Molti alpinisti hanno attraversato foreste, ghiacciai, scalato pareti, vissuto per lunghi giorni sotto lo stesso cielo stellato degli animali selvatici, magari sapevano che stavano lì con loro ma non li hanno mai incontrati oppure hanno storie memorabili da raccontare come le loro ascensioni o magari li hanno sognati o temuti mentre stavano accampati alla base di una temutissima parete anch’essa a lungo sognata prima di trovarsi proprio lì al suo cospetto.