Nel gennaio 2011, dopo un faticoso accordo di pace e un referendum, nacque il 54° stato africano: il Sud Sudan. Finiva così la sanguinosissima guerra civile sudanese, annoverata tra le più lunghe dell’intero continente: 2 milioni di morti e 4 milioni di sfollati in 20 anni.
Si prospettava una straordinaria occasione di riscatto per la popolazione e la possibilità per il mondo intero di conoscere finalmente le bellezze naturali di questo Paese, che secondo i viaggiatori più avventurosi rivaleggiano con gli angoli più spettacolari dell’intero Pianeta.
In molti, però, avevano subito manifestato nuove preoccupazioni: i ricchi giacimenti petroliferi presenti avrebbero potuto trascinare lo Stato appena nato in una nuova guerra. E così è stato. Due anni fa è esploso il conflitto in Sud Sudan. Un conflitto etnico tra il presidente Salva Kiir Mayardit, che è un Dinka, e il suo vice Riek Machar, un Nuer. Un conflitto che inasprisce di nuovo la povertà e provoca enormi disastri umanitari, ma che ha sempre la stessa origine: il controllo del petrolio.
Oggi un milione e 600mila persone sono in fuga. In due anni ci sono state violente crisi di malaria e colera. Intanto i due eserciti compiono atrocità di ogni genere e reclutano bambini soldato.
Nelle semplificazioni mediatiche la guerra civile in Sudan è stata raccontata per anni come un conflitto etnico e soprattutto religioso tra le popolazioni arabe e musulmane del nord e quelle nere e cristiano-animiste del sud. Lo stesso sta accadendo per questo nuovo scontro. Gli osservatori più attenti ci ricordano invece che quest’area è sempre più contesa ed è anche oggetto di manovre e interessi stranieri. È una guerra lontana, di cui sappiamo poco, quasi niente, ma che in realtà ci riguarda molto più da vicino.
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