Da Marrakech ci stiamo dirigendo verso est per raggiungere gli altipiani innevati dell’Alto Atlante. A breve arriveremo a Azilal, piccola cittadina ai piedi della principale catena montuosa del Paese, dove lasceremo la strada principale per risalire le montagne.
In Italia io e Mario abbiamo raggiunto insieme numerose vette delle alpi occidentali, sempre in inverno, con la neve sotto i suoi sci e sotto le mie ciaspole. Durante le nostre escursioni parliamo poco, bisogna risparmiare fiato, ma la montagna insegna che per conoscersi è sufficiente camminare vicini, osservarsi, aiutarsi quando necessario. Sarà inoltre per via della vicinanza al cielo e alle nuvole o per la magia della forza degli elementi, che spesso in montagna basta uno sguardo per intendersi. E così, senza nemmeno programmarlo in anticipo, anche in Marocco decidiamo di spingerci verso l‘alto, individuando come meta la regione più elevata del Paese.
Non abbiamo attrezzature specifiche e nemmeno velleità di raggiungere cime o di fare particolari escursioni. Con noi solo la voglia di conoscere e di visitare villaggi montani, dove la vita scorre lenta e genuina, tenedoci quindi il più possibile distanti dalle rotte turistiche.
Vediamo in lontananza la cittadina con le sue moschee e i minareti che emergono dalle basse costruzioni in terra. Ci avviciniamo, per le strade c’è fermento, i prati che circondano la periferia sono traboccanti di auto ricoperte di fango e parcheggiate con rigoroso disordine.
Lasciamo la strada asfaltata e, scivolando anche noi sul fondo viscido e insidioso dei campi, andiamo in cerca di uno spazio libero dove parcheggiare la piccola Fiat Polo noleggiata un paio di settimane fa a Marrakech.
Usciti dall’auto ci lasciamo trascinare dalla folla senza opporre resistenza. Raggiungiamo il centro, dove scopriamo che è giorno di mercato.
Le comunità berbere sono scese dalle montagne con i loro prodotti da vendere alla gente delle pianure. Spezie, cibi e soprattutto i tessuti che i numerosi sarti sparsi per bancarelle sono pronti a confezionare sul momento trasformandoli in giacche, pantaloni e capotti.
Camminiamo tra le vie inebriate di odori di spezie e di carni di capra cotte sulle griglie. Una scaletta arrugginita, cementata fino alla cima di una torretta di mattoni rossi alta una ventina di metri, mi fa pensare alla possibilità di fare qualche foto panoramica.
Lascio a Mario lo zaino e inizio ad arrampicarmi. Dall’alto vedo la distesa immensa di tendoni che si estende in ogni direzione. Faccio qualche scatto nelle quattro direzioni, poi inizio la discesa attento a non far cadere l’attrezzatura. Poggiato il piede a terra vengo prelevato da due personaggi in divisa che, senza chiedermi spiegazioni, mi prendono sottobraccio, mi comunicano che sono in arresto e mi trascinano in un centro della polizia.
Arrivato in caserma vengo consegnato a un loro superiore che mi sottopone a un poco piacevole interrogatorio. Da parte mia spiego che ero salito sulla torretta per fare qualche foto del panorama e che non era indicato alcun divieto. In risposta mi dice che deve trattenermi e che mi verrà anche sequestrata la macchina fotografica.
Cerco di capire quale sia il problema con la macchina fotografica e con le foto scattate. La discussione si fa più animata, mentre Mario, non lontano da me, mi rivolge sguardi preoccupati. Mi viene richiesto di estrarre il rullino dalla macchina fotografica. Con il mio francese raffazzonato spiego che non è una macchina analogica ma digitale e che non possiede un rullino. La mia risposta crea ulteriore confusione e peggiora la situazione.
Afferro quindi la macchina fotografica e faccio apparire sul monitor l’ultima foto scattata. Il poliziotto la guarda con un misto di stupore e interesse. Uno dei due militari che mi hanno prelevato gli spiega che si tratta di un nuovo tipo di macchine fotografiche che lavorano senza rullino.
Faccio scorrere le immagini fino a quando vengo bloccato. Guardando una delle foto mi ripete che a causa di quell’immagine sarò arrestato e la macchina sequestrata. Guardo la foto, obiettivamente poco interessante e del tutto simile alle tre che la precedevano. Alla mia richiesta di spiegazioni mi viene fatto notare che nell’inquadratura appare un edificio bianco che non potevo fotografare.
Penso a una caserma militare o al centro della polizia dove ci troviamo, ma scopro che si tratta di un mattatoio. Vengo così accusato di aver fotografato un mattatoio con lo scopo di portare in Europa le prove che in Marocco gli animali vengono maltrattati prima di essere uccisi.
Dopo aver dimostrato che anche ingrandendo l’immagine non è possibile vedere ciò che accade all’interno delle mura, propongo a tutti di lasciarmi cancellare la foto incriminata. Il più alto in grado mi chiede con stupore se posso davvero cancellarla.
Procedo con la cancellazione e a testimonianza di quanto fatto lascio scorrere le immagini sul monitor dimostrando che il mattatoio non appare in nessun fotogramma. Mi vengono poi rivolte alcune domande specifiche sulla macchina fotografica, sul suo costo e sulla possibilità di stampare le foto. Rispondo professionalmente a tutte le domande mentre vedo Mario che, seduto su una seggiola, appare piuttosto sconsolato. Il tempo passa e inizio ad essere sempre più impaziente di conoscere il mio destino.
Al termine di una ramanzina dal sapore paterno veniamo accompagnati tutti all’uscita, io, Mario e la macchina fotografica, definitivamente orfana di uno scatto. Mario mi chiede cosa volessero da me e perché erano tanto interessati alla macchina fotografica. Gli sintetizzo l’accaduto, mentre attraversiamo il mercato per l’ultima vota prima di entrare in auto e riprendere finalmente il nostro cammino.
Saliamo di quota, la strada è sempre più stretta e la neve caduta qualche giorno prima si è già sciolta e mescolata alla terra trasformandola in fango. A pomeriggio inoltrato raggiungiamo un villaggio dove veniamo accolti da un gruppo di bambini con guance rosse e rotonde come mele.
Lasciamo l’auto per andare in cerca di una camera dove pernottare. Quattro donne, sedute sul tetto di una casa intente ad essiccare al sole il loro raccolto, ci osserva con stupore, lasciandoci intuire che non sono molti i turisti ad arrivare in quelle zone. Ci sembra di essere in un altro mondo, forse a noi più familiare.
Procediamo seguendo stretti vicoli che non potranno mai vedere la luce del sole. Sul ciglio di una porta azzurra un uomo che ci offre una camera per la notte. Chiediamo di vederla. Ci fa entrare, ci porta al piano superiore e ci fa accomodare su dei grandi cuscini, poi dice alla moglie di prepararci un te.
La donna accende il fuoco e si appoggia in silenzio contro il muro con un pezzo di pane tra le mani. Scambiamo qualche parola con l’uomo, poche, forse per via del suo francese poco fluente. Riusciamo però a intenderci subito, parliamo tutti il linguaggio della montagna, fatto di profonde intese e poche parole.
Il momento dello scatto
Era il mio primo viaggio con apparecchiatura fotografica digitale. Dopo aver testato altri corpi macchina, ed essere rimasto deluso dalla qualità dei sensori, seguii il consiglio di un amico e acquistai la Nikon D70. Per la prima volta riscontravo una qualità d’immagine quantomeno competitiva con quella offerta dalla pellicola, alla quale si sommavano una serie di altri fattori estremamente positivi che ormai tutti conosciamo.
Nonostante la possibilità di realizzare un numero infinito di scatti senza costi aggiuntivi, continuai ad agire con parsimonia sul pulsante dell’otturatore, in quanto, così facendo, potevo concentrarmi maggiormente su creatività, composizione, luce, ecc.
La camera che ci ospitava era scarsamente illuminata, rappresentava quindi un interessante scenario per testare l’apparecchiatura alle alte sensibilità. Impostai la massima sensibilità (che dalla scala ASA delle pellicole era diventata la scala ISO del sensore) che in precedenza avevo giudicato rientrare nei limiti del consentito per ottenere un’immagine di qualità. Verificai quindi che gli altri parametri (lunghezza focale, tempo otturatore e apertura del diaframma) mi permettessero di scongiurare l’effetto mosso. Fui quindi costretto ad aprire al massimo il diaframma (impostazione che preferisco evitare ma che accetto quando non ho alternative) per ottenere un tempo di 1/15 di secondo. Volevo una ripresa dal basso e certo che la donna avrebbe rivolto il suo sguardo verso me se mi fossi steso a terra, condizionando la genuinità del momento, inquadrai senza guardare nel mirino e “sparai” un solo colpo.
Dati tecnici
- Data: 12/01/2005
- Corpo macchina: Nikon D70
- Obiettivo: Nikon 18/70 f 3,6
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 18 mm
- Apertura diaframma: F 3,6
- Tempo otturatore: 1/15 sec.
- Compensazione esposizione: 0
- Sensibilità sensore: ISO 1600
- Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze:
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