C’è una regione della Namibia al confine con l’Angola dove pochissimi viaggiatori osano avventurarsi: è il Kaokoland occidentale. Per raggiungerla è necessario percorrere piste che portano al limite del ribaltamento anche i fuoristrada più preparati.
Il Van Zyl’s Pass è il passaggio più impegnativo dell’itinerario; sono numerose le storie di driver locali che hanno perso il controllo del loro mezzo a causa di una discesa troppo ripida e sconnessa. Gli ultimi trecento metri, che riportano alle pianure, risultano tanto accidentati che per attraversarli è necessario percorrerli a piedi per poter individuare un passaggio sicuro. Per evitare di restare con una ruota sospesa o incastrati tra le rocce bisogna riempire le buche con grandi pietroni o con le ruote di scorta dei mezzi stessi. Nei passaggi più delicati risulta indispensabile l’aiuto di un compagno esperto che a qualche metro di distanza dal cofano indichi gli spostamenti millimetrici da effettuare per non infilare le ruote nel posto sbagliato.
Arrivati in fondo si entra nel Marienfluss, una vallata di erba gialla, alta quanto il cofano, che al tramonto si trasforma in una distesa dorata destinata a perdersi all’orizzonte. Una sorta di Eden dove di tanto in tanto sbucano teste di giraffe, zebre, orici e struzzi. Da qui sono necessari diversi giorni di viaggio per tornare a incontrare strutture, rivenditori di carburante e turisti. Si viaggia in autosufficienza e solo con mezzi preparati e provvisti dell’attrezzatura necessaria per risolvere anche le situazioni d’emergenza più critiche.
Insieme al mio compagno di viaggio Edoardo Miola (anche lui fotografo NPS) siamo partiti più di due mesi fa da Cape Town e seguendo la costa orientale del Sud Africa abbiamo percorso la Garden Route fino a raggiungere Durban, i parchi Hluhluwe e Santa Lucia. Abbiamo risalito l’altipiano del Lesotho e attraversato la catena montuosa del Drakensberg per poi entrare in Swaziland e nel parco sudafricano del Krugher, attraversandolo da Sud a Nord.
Spostandoci verso ovest abbiamo visitato il Kgalagadi Transfrontier National Park per entrare successivamente in Namibia. Muovendoci infine in direzione nord siamo arrivati sulle sponde del fiume Kunene, al confine con l’Angola, da dove stiamo iniziando il nostro lento rientro verso Cape Town.
I riferimenti riportati sulla cartina del Kaokoland occidentale sono vaghi e curiosi. Lungo l’itinerario tracciato a penna rossa abbiamo previsto il passaggio a “red drum”, che appare indicato sulla mappa con gli stessi caratteri del capoluogo Opuwo (7.500 abitanti). Non si tratterà però di un paese e nemmeno di un villaggio, ma semplicemente di un bidone rosso (esattamente come indicato sulla cartina) abbandonato all’incrocio di due piste sterrate.
Continuiamo a scendere verso sud, verso Orupembe, ennesima incognita di ciò che incontreremo lungo il cammino. Da lontano intravediamo una sola costruzione, che si rivelerà essere una minuscola bottega provvista di qualche scatola di carne e due bottiglie di whisky.
Al lato un camioncino visibilmente inclinato con dentro una donna locale che tiene in braccio un bimbo piccolissimo dai lineamenti e dal colore leggermente meno “locali”. Scendiamo dal fuoristrada e ci avviciniamo alla donna per offrire aiuto. Chinati, vicino alla ruota posteriore sinistra, vediamo due presunti meccanici armati di qualche chiave inglese e un paio di cacciaviti, intenti a litigare con un cuscinetto per estrarlo dalla sua sede. In quel momento, da dietro il camioncino, appare un uomo le cui origini hanno indubbiamente ben poco a che fare con l’Africa e che d’istinto confondiamo immediatamente con Jack Nicholson per la sua straordinaria (e anche un po’ inquietante) somiglianza. Viene verso di noi illuminato dal sole accecante. Il suo sorriso, che farebbe invidia allo stesso attore nordamericano nell’interpretazione di Joker, lo dipinge come l’essere più felice della Terra.
Tentiamo di chiedergli se va tutto bene, se ha problemi con il suo camioncino e se possiamo essere d’aiuto, ma lui non ci concede il tempo di tradurre in inglese nemmeno la prima parola del nostro pensiero. Come un uragano ci travolge con la storia degli ultimi giorni di viaggio che hanno portato lui, sua moglie e il suo bimbo a Orupembe. Nonostante non si sia propriamente trattato di un viaggio comodo e tantomeno privo di imprevisti, esprime ogni singola parola con lo stesso entusiasmo di un bambino che elenca i regali di Natale appena ricevuti. Arrivato finalmente a Orupembe tre giorni fa per fare una consegna alla bottega, ha rotto il cuscinetto della ruota del suo camioncino, così non ha potuto fare altro che attendere l’arrivo di qualcuno che potesse andare in cerca di un meccanico che però distava più di un giorno di viaggio da Orupembe. Ora il meccanico è arrivato, anche se con il ricambio sbagliato. Lui e la sua famiglia dovranno attendere almeno altri due o tre giorni prima di partire, ma continua a ripetere: «That’s Africa! Look around, that’s so beautiful! That’s what I always wanted in my life!». Dice che ogni giorno speso in quella regione dimenticata da Dio è per lui un regalo immenso. Niente potrà mai essere paragonabile a quei momenti che solo l’Africa può donare. Dice che non dobbiamo preoccuparci, che va tutto bene, che è tutto ok!
Mentre ci allontaniamo vediamo ancora negli specchietti il suo sorriso che ci saluta esclamando nuovamente: «That’s Africa my friends! That’s so beautiful!».
Il momento dello scatto
Volevamo riprendere la vallata dall’alto, ma non esistevano piste percorribili col fuoristrada per risalire le colline a est in modo da avere la luce alle spalle. Decidemmo, quindi, di lasciare il mezzo e proseguire a piedi. Ci arrampicammo fino alla cima di un’altura che avevamo individuato tenendo conto della direzione del sole e delle difficoltà del percorso. Arrivati sulla cresta, carichi di sudore, ci spostammo ancora di qualche centinaio di metri per migliorare il punto di ripresa.
Con me avevo una Nikon D2x con un obiettivo 17/55 f2,8 e una D300 con il 10,5 f2,8 fisheye acquistato in Italia poco prima di partire per la nuova avventura africana. Scattai foto con entrambe le macchine, ma alla fine mi convinse maggiormente il risultato ottenuto con il fisheye.
In alcune circostanze, e con un po’ di esperienza, è possibile fotografare un paesaggio annullando la deformazione classica del fisheye senza dover intervenire successivamente via software. È però necessario un posizionamento micrometrico della macchina fotografica per collocare la linea virtuale dell’orizzonte perfettamente in mezzo all’inquadratura. In questo modo, se al di sopra o al di sotto della linea virtuale dell’orizzonte non esistono evidenti riferimenti orizzontali o rettilinei o comunque forme geometriche lineari, la deformazione non risulterà percepibile.
L’intensità della luce, la focale cortissima e l’assenza del vento mi permisero di scattare a mano libera in quanto, impostando un diaframma chiuso per evidenziare ogni dettaglio, potevo contare su una velocità di scatto dell’otturatore di 1/200 di secondo, più che sufficiente per scongiurare qualsiasi effetto mosso o micromosso.
Dati tecnici
- Data: 18 Agosto 2009
- Corpo macchina: Nikon D300
- Obiettivo: Nikon 10,5 f2,8 fisheye
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 10,5 mm.
- Apertura diaframma: F 16
- Tempo otturatore: 1/200
- Compensazione esposizione: 0
- Sensibilità sensore: ISO 200
- Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze: www.fattoreulisse.com