Il leggendario esploratore e antropologo norvegese Thor Heyerdahl è conosciuto al grande pubblico principalmente per la sua spedizione sul Kon-Tiki, che lo portò a raggiungere le isole della Polinesia a partire dalle coste del Sud America.
Il viaggio di circa 6900 chilometri fu compiuto a bordo di una imbarcazione in legno di balsa (il Kon-Tiki, appunto) realizzata con le stesse tecniche che avrebbero utilizzato eventuali esploratori dell’America precolombiana.
Il successo della spedizione, durata 101 giorni a cavallo tra la primavera e l’estate del 1947, donò allo scienziato e al suo equipaggio di cinque connazionali una grandissima notorietà. Il successivo libro-diario di viaggio sull’impresa divenne un bestseller, e il lungometraggio da esso tratto vinse il Premio Oscar per il miglior Documentario nel 1952. Nello stesso anno Heyerdahl si recò sulle isole Galapagos, dove dimostrò come l’arcipelago avesse fatto da punto di approdo per navigatori provenienti dall’America precolombiana.
Altre avventurose spedizioni per mare rafforzarono la fama di Heyerdahl, in particolare quelle con il Ra e il Ra II, rispettivamente del 1969 e 1970, per dimostrare la possibilità di attraversare l’Atlantico a bordo di una imbarcazione di papiro (la seconda traversata ebbe successo). Nel 1978 fu la volta del Tigris, una nave di giunchi che gli permise di percorrere una tratta di 6800 chilometri tra la Mesopotamia e la valle dell’Indo, a dimostrare la possibilità di contatti tra le antiche civiltà vissute in quelle zone.
Meno conosciute, ma altrettanto affascinanti, furono le ricerche che Heyerdahl condusse sulla leggendaria Isola di Pasqua. L’isola, tra i più remoti e isolati lembi di terra esistenti, era da sempre circondata dal mistero: chi furono realmente i suoi abitanti? Come riuscirono a costruire e trasportare i moai, le loro gigantesche e pesantissime statue?
Heyerdahl, per rispondere a questi quesiti, si recò sull’Isola di Pasqua nel 1955, accompagnato da una squadra di archeologi. Tra le prime, importanti scoperte che vennero fatte dall’esploratore norvegese fu intuire come buona parte delle immense statue, che emergevano solo parzialmente dal terreno, non fossero semplici teste, ma anche busti con braccia.
Vennero così effettuati scavi intorno ad alcune statue per esporre alla luce le loro figure complete. Furono anche ricreate le tecniche di scavo sulla pietra tufacea, dimostrando come non occorressero tecnologie avanzate per realizzare un moai. Heyerdahl esplorò alcuni santuari sull’isola, ricavati all’interno di grotte, che rivelarono la presenza di numerosi manufatti antichi, noti solo ai locali. Parte di questi oggetti vennero presi e portati in Europa.
A tal proposito, di recente il figlio dello scienziato ha concordato con le autorità cilene (sotto la cui giurisdizione si trova l’isola) la restituzione dei cimeli.
Nel 1986, Heyerdahl ritornò sull’isola e affrontò un altro mistero: come era stato possibile, per le popolazioni locali, innalzare e spostare delle statue pesanti tonnellate? Si sapeva che i moai erano stati scavati in cave di tufo nell’entroterra dell’isola, alle pendici del vulcano Rano Raraku, ma le statue finite si trovavano generalmente lungo la costa.
Ci si domandava come fosse stato possibile realizzare una simile impresa utilizzando tecnologie primitive, al punto che in molti consideravano risposte fantasiose ed esoteriche. Heyerdahl e un gruppo di locali riuscirono a sollevare un moai, puntellandolo con rocce e assi, e persino a trasportarlo, legandolo e trascinandolo su slitte di legno create appositamente. L’ingegno e l’inventiva, in questo caso, avevano superato la tecnologia moderna. In tempi recenti, però, la teoria di Heyerdahl è stata in parte rivista: probabilmente i moai “camminarono” fino alle loro posizioni definitive, grazie a molte corde, lavoro di braccia e a una tecnica particolare. La tradizione locale, difatti, raccontava di come le statue, in effetti, avessero un tempo “camminato”.
L’intuizione più importante di Heyerdahl riguardo all’Isola di Pasqua, però, fu un’altra: un tempo, quel remoto lembo di terra in mezzo al mare era stato un autentico paradiso, ricoperto di fitte foreste che fornivano ai suoi abitanti legna per case e imbarcazioni, protezione e cibo. Ma, col tempo, quelle foreste vennero abbattute e l’Isola divenne brulla e inospitale. Quella mancanza di giudizio segnò la sorte degli abitanti di Rapa Nui, la cui civiltà collassò, e ci regala ancora oggi uno spunto di riflessione importante: le risorse naturali non sono illimitate: possono finire e, quando saranno terminate, non ci saranno soluzioni di riserva per rimpiazzarle.
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