La fuoriuscita di petrolio nel mare davanti a Israele conferma la grande pressione e i rischi a cui è sottoposto il Mare Nostrum.
Sono ormai passate circa due settimane da quando una fuoriuscita di petrolio in mare aperto davanti alle coste mediterranee di Israele, proveniente probabilmente da una petroliera che stava operando illegalmente, ha sversato almeno mille tonnellate di greggio sulle spiagge del Paese.
Il bitume è giunto a riva, contaminando oltre 170 chilometri di costa (dei 195 complessivi), tra cui quelli della Riserva Naturale di Gador.
Da giorni migliaia di volontari, coordinati da ONG e autorità ambientali locali, sono al lavoro per cercare di ripulire le spiagge da uno strato oleoso spesso in alcuni punti anche venti centimetri.
Uccelli, tartarughe marine e pesci di ogni specie continuano ad affiorare imbrattati di catrame e il petrolio sversato è stato probabilmente la causa della morte di una balenottera comune, la cui carcassa è stata rinvenuta a riva nei giorni scorsi.
Questo ennesimo disastro ambientale, il più grave degli ultimi vent’anni nella storia dello stato ebraico, ha evidenziato ancora una volta la fragilità del mar Mediterraneo e dei suoi ecosistemi, ancora troppo poco tutelati, a fronte di una pressione antropica elevatissima.
È bene, infatti, ricordare che lungo le rive del Mare Nostrum – che tuttora costituisce uno dei mari più importanti del mondo dal punto di vista economico con un valore di oltre 450 miliardi di dollari di attività legate ad esso – vivono stabilmente circa 150 milioni di persone.
Nonostante le sue dimensioni abbastanza limitate (2,51 milioni di kmq) esso è interessato da oltre il 15% del traffico marittimo globale, in costante aumento grazie soprattutto al recente ampliamento del Canale di Suez, da cui transitano navi sempre più grosse, oltre a numerose specie aliene che sempre più spesso entrano in conflitto con quelle autoctone, che peraltro costituiscono circa il 18% della biodiversità marina mondiale.
Un’economia di area che è comunque strettamente legata alla salute della locale biodiversità e degli ecosistemi marini, sempre più minacciati dai cambiamenti climatici e da una crescita insostenibile della pressione antropica: inquinamento, traffico navale, attività estrattive di gas e petrolio, sono comunque destinate ad aumentare nei prossimi anni (scarica QUI il report WWF Reviving the Economy of the Mediterranean Sea) con gravi danni sull’ambiente marini e le creature che lo abitano.
Purtroppo il fatto di essere un mare quasi chiuso, la cui acqua si ricambia totalmente in media ogni 80 anni, ne aumenta il grado di fragilità, tanto che già negli anni ‘80 del secolo scorso il noto ecologo Mario Pavan profetizzava la morte biologica del bacino entro l’inizio del terzo Millennio.
Per fortuna le cose non sono andate come profetizzava lo scienziato italiano, ma certo la situazione è grave e in costante peggioramento. Infatti, il nostro mare si sta scaldando a uno dei ritmi più rapidi al mondo (fino a 0,12 gradi all’anno, in superficie) ed è avvelenato dall’inquinamento, sia di tipo chimico ma anche da quello della plastica. Nonostante la superficie del Mediterraneo sia pari ad appena l’1 %degli oceani del mondo, contiene circa il 7% delle microplastiche disperse in mare, con una grande isola galleggiante che si è formata soprattutto nel tratto tra la Corsica e l’Isola di Capraia.
È quindi davvero urgente applicare nuove politiche di regolazione delle attività antropiche e di tutela del nostro mare, come peraltro raccomandano varie convenzioni internazionali o programmi come il Piano per la Ripresa Blu del Mediterraneo. Il tempo per intervenire è davvero ormai agli sgoccioli.