Gli orsi fanno parte delle Alpi fin da quando il genere Homo ne ha memoria. Hanno attraversato le nostre montagne e vissuto nelle loro rigogliose foreste. Hanno visto i ghiacciai modellare le valli, i torrenti gonfiarsi di acqua, sparire e cambiare il loro corso.
di Elisabetta Filosi
Il fascino di questa coesistenza è arrivato fino ai giorni nostri. Il rapporto tra queste due specie è infatti intriso di un simbolismo molto antico, ancora oggi presente in diverse popolazioni moderne. All’orso da sempre vengono attribuite doti terrifiche, ma è anche un simbolo di coraggio e di forza, una creatura da temere e al contempo rispettare.
Un legame molto stretto
L’uomo di Neandertal (Homo neanderthalensis) prima e l’Uomo Moderno (Homo sapiens) poi, hanno frequentato non solo gli stessi territori degli orsi ma, entrambi bisognosi di rifugi invernali, anche le stesse grotte e gli stessi ripari. I resti ritrovati e studiati dagli archeologi hanno permesso di far luce su questo rapporto. Ne ho discusso a lungo con l’archeologo Nicola Nannini, esperto in arecheozoologia e ricercatore post doc del Muse di Trento e sostenuto dalla Fondazione Caritro. Nannini da anni studia l’interazione tra l’uomo preistorico e la fauna selvatica, orso in particolare.
«Un tempo, il panorama della biodiversità ursina era molto più ampio rispetto a quello moderno. Oggi, infatti, le Alpi centro orientali sono popolate da l’orso bruno (Ursus arctos), ma fino a circa 24.000 anni fa erano presenti anche i più massicci orsi delle caverne (sensu lato)» mi spiega Nannini.
«L’uomo preistorico conosceva molto bene l’ecologia di questi animali e, non meno di loro, conosceva il territorio. La profonda conoscenza delle abitudini del plantigrado permetteva di attuare e affinare strategie di caccia organizzate. Questi animali erano infatti considerati preziose risorse, sia per la calda pelliccia che per la quantità di carne che fornivano».
Quali vantaggi dava, nello specifico, conoscere l’ecologia dell’orso?
«Conoscere l’ecologia di un animale come l’orso permetteva, ad esempio, di sapere quando era maggiormente vulnerabile. Era noto che in inverno l’orso può andare in una sorta di torpore che implica una riduzione delle funzioni vitali e sapevano che, soprattutto i giovani, al primo risveglio primaverile erano più facilmente attaccabili. Questo facilitava la caccia rendendola meno pericolosa» spiega l’archeozoologo.
«Non solo, conoscevano molto bene anche l’anatomia dell’animale e questo permetteva di poterne utilizzare tutte le parti riducendo al minimo gli sprechi: la pelliccia veniva ripulita dal grasso e preparata per farne indumenti caldi, anche le ossa e i tendini venivano ripuliti e la carne asportata consumata, grasso e midollo venivano sicuramente asportati. Sapevano bene come macellare la carne utilizzando utensili in selce. Sulle ossa abbiamo trovato strie di macellazione (segni di taglio, Ndr) proprio dove si attaccavano muscoli e tendini, confermando il fatto che la carne subiva una determinata lavorazione. Segni di macellazione sono presenti anche sui lati interni delle vertebre e delle costole; questo indica che gli organi interni venivano sapientemente asportati. Anche le ossa stesse non andavano buttate: dai neandertaliani, fino ad arrivare all’età del bronzo, le schegge d’osso venivano lavorate e trasformate in utensili. Un osso lungo levigato su arenaria poteva dar vita a punteruoli o pugnali. Ovviamente queste tecniche si tramandavano di generazione in generazione, affinandosi sempre di più».
Perché la convivenza è tutt’oggi così difficile?
Oggi, la nostra realtà, rende priva di senso qualsiasi forma di caccia all’orso. Non è una risorsa alimentare fondamentale ed è una specie protetta a livello internazionale. Non dobbiamo più condividere con lui i ripari invernali e lottare per la sopravvivenza scaldandoci con la sua pelliccia. Non dobbiamo più competere per le stesse risorse.
Ma allora perché la convivenza è tutt’oggi così difficile? Forse è andata persa la parte più simbolica, quella del coraggio, della forza e del rispetto. L’orso oggi è un guerriero solo perché lotta contro un’estinzione che è perennemente in agguato. Di lui rimangono impresse le rare predazioni ai danni di qualche animale domestico e gli ancora più rari attacchi all’uomo degli ultimi anni. Si sta perdendo tutto il resto e quel legame fortissimo che dura almeno da 500.000 anni (500.000 anni fa è datata la prima evidenza di integrazione del genere Homo con l’orso) deve essere ricordato.
In Italia, ad oggi, non sono note né pitture rupestri né graffiti che rappresentino questi animali; nessuna evidenza artistica. Possiamo solo immaginare come venissero tramandate certe usanze e conoscenze, ma quello che viene spontaneo pensare è che, da sempre, il ruolo della comunicazione, anche in ambito della “coesistenza con la fauna selvatica” fosse di estrema importanza. Tramandarsi oralmente conoscenze faunistiche e tecniche venatorie ha sicuramente permesso ai nostri antenati una migliore sopravvivenza e, probabilmente, anche una migliore coesistenza.
Oggi la conoscenza di questa specie è fondamentale per la sua conservazione. Una corretta informazione scientifica permette di ridurre all’oggettività le paure e i falsi miti che spesso si celano ingiustamente tra le pagine della nostra mente.