In natura esistono enormi depositi di gas naturali intrappolati in composti solidi che si formano in condizioni di bassa temperatura e di bassa pressione. Sono gli idrati di gas naturale. Ma con il cambiamento climatico che provoca un riscaldamento del pianeta, quali sono le possibili conseguenze della decomposizione di depositi di idrati di gas naturali?
La questione è stata indagata da uno studio che ha coinvolto l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS), pubblicato su Earth Science Reviews: “Environmental challenges related to methane hydrate decomposition from climate change scenario and anthropic activities: State of the art, potential consequences and monitoring solutions”.
La più vasta riserva di gas naturale del pianeta
Gli idrati di gas naturali costituiscono la più vasta riserva di gas del pianeta: si stima, infatti, che il carbonio organico stoccato negli idrati sia il doppio di quello estraibile da tutte le fonti fossili disponibili.
I depositi di idrati di gas naturali sono oggetto di studio da decenni per comprendere il loro ruolo nel ciclo oceanico del metano ma anche il loro potenziale come risorsa energetica.
Comprendere i meccanismi della loro decomposizione, i principali fattori che innescano questo processo, la sua velocità e durata, così come il flusso di metano rilasciato, è estremamente importante.
«Il cambiamento climatico potrebbe innescare la decomposizione dei gas idrati situati nel permafrost e nei sedimenti marini in acque superficiali dei margini continentali, due ambienti che ospitano gli ecosistemi più vulnerabili sul nostro Pianeta» spiega Umberta Tinivella, ricercatrice dell’OGS e coordinatrice del gruppo di lavoro.
È necessario quindi comprendere in che modo l’aumento della temperatura del fondale marino influenzerà le comunità microbiche che effettuano l’ossidazione aerobica e anaerobica del metano e, di conseguenza, come cambierà la quantità di metano che verrà rilasciata dagli idrati. Allo stato delle conoscenze attuali non è chiaro quali saranno i rischi ambientali di tali rilasci nel prossimo futuro sia per quel che riguarda gli ecosistemi, sia per quel che riguarda la stabilità dei fondali marini.
Lo studio ha coinvolto l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale – OGS, l’Istituto Ifremer di Brest, l’Ecole Ponts ParisTech, l’Heriot-Watt University di Edimburgo e altri partner come il Kongsberg Maritime di Amburgo e GeoMarine Ltd in Bulgaria.
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