Attori, calciatori, cantanti e influencer di tutto il mondo hanno pubblicato sui social immagini della foresta amazzonica divorata dalle fiamme. Poi qualche giornale ha chiarito che in realtà molti di quegli scatti non ritraevano affatto l’Amazzonia e alcuni non erano neppure recenti.
A quel punto qualcuno si è spinto a dire che l’allarme sul numero degli incendi divampati nelle ultime settimane è fortemente esagerato, essendo di poco superiore alla media degli ultimi dieci anni. C’è stato anche chi non ha perso l’occasione per fare della facile ironia sull’isteria ambientalista: “Ci raccontano da decenni che la foresta amazzonica sta per scomparire, ma è ancora lì”.
Della questione si è occupata anche rivistanatura.com con un articolo a firma di Luca Serafini che ha cercato di indagare le ragioni dei roghi e la dimensione del fenomeno.
La foresta pluviale amazzonica è un bene preziosissimo: si estende su una superficie di 6,7 milioni di km², interessa nove Stati sudamericani e la porzione più vasta, le cui dimensioni superano quelle dell’Europa occidentale, si trova in Brasile. È ancora abitata da circa 350 popolazioni indigene, spesso legate a tradizioni e usi molto antichi e vittime di sopraffazioni di ogni genere. Un decimo delle specie animali e vegetali conosciute vive qui. Da decenni, però, enormi porzioni vengono abbattute per fare spazio a pascoli destinati alle mandrie di bovini, mentre miniere e pozzi petroliferi inquinano e deturpano altre zone. Secondo le stime più accreditate quasi il 20 per cento della sua superficie originaria è già stato distrutto, oltre l’80 per cento è ancora ben conservato.
C’è un solo modo per sperare che anche in futuro le popolazioni locali e il mondo intero possano beneficiare di questo straordinario habitat: trovare un equilibrio fra equità sociale e protezione degli ecosistemi. Se non si crea un clima di cooperazione fra gli Stati che ospitano la foresta, in modo da dare vita a una strategia congiunta capace di garantire uno sviluppo sostenibile, tutto risulterà inutile. Soprattutto lo saranno tweet e post pubblicati frettolosamente da spiagge e residenze dorate. E anche i milioni di «mi piace» cliccati con leggerezza.
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