Da tempo gli studiosi del clima sottolineano un aspetto importante sul quale è necessario riflettere: il riscaldamento a cui stiamo assistendo non è un danno per il pianeta, è un danno per l’uomo e per numerose altre specie animali e vegetali. Il rischio non è – come talvolta si sente dire – quello di distruggere la Terra, ma piuttosto di renderla un luogo inospitale per la vita umana.
Insomma, anche nella peggiore delle ipotesi questa palla azzurra sopravvivrà e, almeno per un altro po’ di tempo, seguiterà a spaziare nell’universo, però senza di noi.
Pensare all’estinzione dell’uomo è al tempo stesso qualcosa di tragico ed elettrizzante. E dopo cosa succederà? Certo non s’interromperà il dialogo fra creazione e disfacimento, ma di noi cosa resterà?
Verrà un giorno nel quale, su un pianeta arso dal sole (o raffreddato?), nessuno più leggerà Omero, Shakespeare o Proust. Ciò non toglie che, nell’istante in cui hanno avuto l’estasi da cui sono nate le loro grandi opere, essi si sono sottratti al tempo.
L’arte costituisce dunque una forma di salvezza? È lo strumento attraverso il quale trasmetteremo la testimonianza del nostro passaggio? Forse. Ma come scrisse André Gide: «Che cosa importa la vita eterna senza la coscienza, a ogni istante, di questa eternità?»
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