Un’infinità di studi dimostra che abbiamo bisogno di muoverci come dell’aria che respiriamo. Di muoverci a piedi, beninteso, e non chiusi dentro veicoli che ci trasportano da un luogo all’altro.
La concezione salvifica del cammino è presente in tante e differenti culture. Partire, camminare e cercare sono attività che rinviano a fondamenti divini, carichi di sacralità.
«Cammina, cammina!» è l’esortazione che si rivolge a chi è in cerca di una soluzione, una nuova via, una nuova vita. Basta continuare a camminare, e tutto andrà bene. Perfino un uomo mondano, inguaribilmente urbano e a tratti indolente come Marcel Proust ha tratto la materia prima della sua Recerche dalle passeggiate che compiva attorno alla cittadina dove trascorreva le vacanze con la famiglia.
Certo, oggi tutto è cambiato. Viviamo in un mondo connesso, globalizzato e carico di luoghi diventati non-luoghi, lontani fra loro ma alla fine tutti simili. E allora che senso può avere mettersi ancora in cammino? Per raggiungere cosa, un altrove che già conosciamo?
Invece è proprio adesso che il cammino risolve, ora che è rimasto così poco da esplorare. Camminare riattiva antiche esperienze, compreso quelle dolorose ma autentiche di andare verso l’ignoto, di sentirsi spaesati, di accettare il cambiamento e quelle che ci fanno riscoprire la lentezza, il raccoglimento, la bellezza dei luoghi nascosti e anche di una sosta.
L’alternativa è restare fermi, rassegnati a un senso di supposta sicurezza, abbandonati a prospettive consolanti, sottomessi alla dittatura di un presunto benessere.
«Il lusso ostacola la mobilità», parola di Bruce Chatwin.
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