Tra le pagine più belle che ci ha donato Bruce Chatwin (1940-1989) annovererei questo passaggio di Anatomia dell’irrequietezza: “I bimbi bruno-dorati dei cacciatori boscimani del Kalahari non piangono mai e sono tra i bimbi più contenti del mondo. E diventano anche, crescendo, persone mitissime. Sono felici della loro sorte, che considerano ideale (…) Perché crescono così bene? Perché non sono frustrati da un infanzia tormentosa. Le madri non stanno mai ferme a lungo, e il loro bimbi non sono mai lasciati soli fino all’età di tre anni e più. Stanno vicino al seno della madre in una fascia di pelle, e il lieve ondeggiare della camminata li culla e li contenta. Quando una madre culla il suo bambino, essa imita, inconsapevolmente, la buona selvaggia che cammina adagio per la savana erbosa, proteggendo il suo piccolo dai serpenti, dagli scorpioni e dai terrori della boscaglia. Se fin dalla nascita abbiamo bisogno di muoverci, come facciamo in seguito a stabilirci in un luogo?”.
Era il 1970 quando Chatwin scrisse queste note. Oggigiorno la situazione è molto differente. I Boscimani del Kalahari (in realtà “bosjemans” è il vocabolo boero che da circa tre secoli si utilizza per indicare i San, popolo tradizionalmente nomade, probabilmente il gruppo etnico più antico dell’Africa australe che vive da migliaia di anni su un vastissimo altopiano tra Namibia, Sud Africa e Botswana) sono stati costretti a insediarsi stabilmente in piccoli e squallidi villaggi per non disturbare turisti e cacciatori impegnati in safari e tornei e per non intralciare lo sfruttamento minerario del ricchissimo sottosuolo sudafricano. Niente più nomadismo, dunque, le nuove generazioni non saprebbero più cavarsela nel deserto né misurarsi con le sfide della natura. Survival International e altre Ong denunciano da anni le politiche di violenza e intimidazione che i governi locali esercitano contro questo popolo. In Botswana tempo fa sono stati arrestati perfino alcuni bambini per possesso di carne di antilope. In sostanza i Boscimani vengono accusati di esercitare, sulle loro terre ancestrali, la caccia tradizionale di sopravvivenza, proprio mentre, sempre in Africa, bracconieri ben armati, organizzati e protetti fanno strage di rinoceronti ed elefanti.
La situazione è drammatica: mentre i pochi Boscimani che sono rimasti nel deserto lottano per sopravvivere e per restare nelle loro terre, le migliaia di loro che sono stati trasferiti nei campi di reinsediamento sono vittime di alcolismo, HIV, depressione. La riflessione di Chatwin sui bambini in movimento, figli nomadi che non piangono mai, appare lontana anni luce. Tuttavia conserva una grande attualità e ci esorta a riflettere. Finché sono stati liberi di vagare nel deserto, i Boscimani sono rimasti assolutamente fedeli alla vita, ne hanno compreso l’unicità e non sono rimasti impantanati nella palude del possesso. La frugalità che per millenni ha contraddistinto la loro esistenza ha avuto come correlato la felicità e il sorriso, la libertà di progettare ogni giorno l’avvenire in modo aperto. La sedentarietà a cui sono stati costretti, invece, li ha costretti a rinunce gravi, imprigionati nella circolarità inesauribile dei cicli produttivi e resi tristi.
Non ci si deve stupire, dunque, se sognano ancora di tornare alla loro vita nomade, al deserto del Kalahari, un ambiente avaro di risorse, dal quale però hanno saputo procurarsi tutto quello di cui avevano bisogno: cibo, acqua, riparo e medicine. Non ci si deve stupire se desiderano tornare lì, in quello spazio di terra arida e movimento, fra condizioni climatiche estreme, dove i bambini non piangono.
Il giorno che moriremo una lieve brezza cancellerà le nostre impronte sulla sabbia.
Quando calerà il vento chi dirà nell’eternità che una volta camminammo qui, all’alba del tempo?
(Poesia boscimane)
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