È successo una vita fa il peggior disastro nucleare della storia. Il 26 aprile 1986, quando l’Europa cominciò a conoscere le reali conseguenze di un incidente nucleare, c’era Maradona al Napoli, c’era il muro di Berlino, c’era il primo governo Craxi; era una vita fa eppure, ancora oggi, non abbiamo affatto superato quel disastro.
La storia (e il presente) di Chernobyl hanno segnato profondamente il nostro atteggiamento nei confronti delle centrali nucleari.
Pochi giorni fa il tristemente famoso reattore 4 della centrale di Chernobyl è stato ricoperto con un maxi scudo d’acciaio, il Chernobyl’s New Safe Confinement. La cupola, alta 108 metri, fa parte di un progetto che dovrà mettere in sicurezza l’area più contaminata entro la fine del 2017, un investimento da 2 miliardi di euro che vede coinvolti più di 40 paesi. In futuro Chernobyl, probabilmente, diventerà una zona dedicata alla produzione di energia pulita, due società cinesi hanno recentemente annunciato di voler costruire un impianto a energia solare nella “zona di alienazione”, quella più pericolosa e vicina al reattore.
Una trasformazione epocale e sicuramente dall’alto valore simbolico, se non altro è chiaro il tentativo di spingere il peggior disastro nucleare della storia verso il cassetto dei ricordi, un cassetto nel quale però entrerà a fatica e fra moltissimi anni.
Dopo trent’anni siamo ancora qui a parlare di Chernobyl, della necessità di spendere due miliardi per rendere la zona almeno accessibile, e di come tamponare una calamità che ci siamo creati da soli.
Allora, facendo ricorso a quell’istinto di sopravvivenza che dovremmo avere da qualche parte (senti la mamma, è lei che mette a posto le cose), viene da chiedersi: ne vale la pena?
Siamo davvero disposti a generare qualcosa di così potenzialmente incontrollabile, solo per soddisfare il bisogno sempre crescente di energia?
Troppo spesso questo ragionamento viene considerato roba da ambientalisti, senza pensare che in realtà il vero pericolo è per l’uomo, più che per l’ambiente. Gli ecosistemi riescono a reagire in tempi molto più brevi di quello che ci immaginiamo; il pericolo più concreto è per noi, generazioni di persone compromesse, malate, evacuate, allontanate per sempre dalla loro terra. Comunque, anche se sappiamo che la natura prima o poi torna, ne è una dimostrazione la recente esplosione di biodiversità proprio nell’area di Chernobyl, non possiamo certo trascurare l’incalcolabile impatto ambientale di disastri del genere.
Non è questione di probabilità, perché per quanto rari, gli incidenti nucleari hanno effetti che non siamo in grado nemmeno di misurare, figuriamoci se possiamo prevederli.
La mastodontica cupola di Chernobyl e gli investimenti per riqualificare l’area, oltre a offrirci un po’ di rassicurazioni per il futuro sembrano volerci ribadire, come se ce ne fosse bisogno dopo trent’anni, che “nucleare è per sempre”. E non è una provocazione, perché rispetto alla durata delle nostre vite, rispetto alle dimensioni delle nostre esistenze, tutto questo tempo è un’eternità.
riproduzione consentita con link a originale e citazione fonte: rivistanatura.com