230 milioni di chilometri quadrati, il 46% della superficie del Pianeta, sono “terra di nessuno”. Gli oceani profondi, al di fuori dei limiti delle acque territoriali e delle sovranità nazionali, sono essenziali per l’ecosistema, perché producono la metà dell’ossigeno che respiriamo, assorbono molto del calore in eccesso e almeno il 26% delle emissioni di CO2 generate dalle attività umane.
Ma chi è responsabile della conservazione di questo ecosistema e della sua biodiversità? È necessario raggiungere un accordo internazionale globale che regoli un uso sostenibile degli oceani e che protegga la biodiversità marina.
Il ruolo delle Nazioni Unite
Gli Stati membri dell’ONU hanno deciso di avviare un negoziato con l’obiettivo di regolamentare la tutela della biodiversità delle aree marine al di fuori delle giurisdizioni nazionali “Biological diversity of areas beyond national jurisdiction” (BBNJ).
Le attività riguarderanno la prospezione genetica, la determinazione di aree marine protette e lo scambio di informazioni scientifiche. Il negoziato vero e proprio avrà inizio a settembre del 2018 e durerà 2 anni.
Considerando quante attività umane sfruttano gli oceani (dai trasporti alla pesca, dallo smaltimento dei rifiuti alle trivellazioni, dal turismo alla ricerca scientifica…) lo scenario che i negoziatori si troveranno ad affrontare li porrà di fronte a scelte cruciali, riguardanti diversi modelli e visioni di governance dell’ecosistema globale.
Il trattato BBNJ potrà, quindi, diventare uno strumento globale per la gestione delle attività che interessano la vita negli oceani, oppure limitarsi a un piccolo accordo tecnico specializzato.
Le lobby si muovono
Fin dai meeting preliminari, la voce delle lobby ha cominciato a farsi sentire. Alcune marinerie sostengono che le leggi regionali che regolamentano la pesca sono già sufficienti e che le loro attività non dovrebbero sottostare a ulteriori accordi e limitazioni.
Le compagnie di cablaggio sottomarino, che garantiscono il 98% delle comunicazioni globali, hanno fatto subito presente che vogliono essere escluse da ogni tipo di accordo, perché sostengono che l’impatto sull’ambiente delle loro attività di posa è minimo.
Poi ci sono gli Stati storicamente e culturalmente riluttanti verso qualunque tipo di regolamentazione sovranazionale.
Altri, invece, non intendono condividere con la comunità internazionale i risultati di studi biologici marini con rilevanza economica e commerciale.
In difesa dell’interesse pubblico
Se da un lato le lobby tentano di difendere i propri interessi, dall’altro si è manifestato un largo consenso verso un approccio vasto e comprensivo per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento, per difendere l’interesse pubblico e per proteggere le comunità più deboli, come, per esempio, gli abitanti delle piccole isole e degli atolli. Non solo. Si riconosce anche la necessità di contrastare il crescente numero di attività illegali che hanno per teatro le acque internazionali.
Anche le legittime attività economiche, come la pesca, hanno bisogno di interventi sovranazionali per la tutela delle risorse al di fuori delle giurisdizioni nazionali: per esempio, il contrasto agli effetti dei cambiamenti climatici, come l’acidificazione delle acque, l’innalzamento del livello degli oceani, gli spostamenti nella distribuzione delle specie, gli eventi meteorologici estremi, l’eutrofizzazione e la perdita di produttività dei mari. Obiettivi raggiungibili solo attraverso la cooperazione internazionale.
Il contesto normativo
Il trattato BBNJ si colloca nell’ambito della cosiddetta “Costituzione degli oceani”, ovvero la United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS) del 1982, che ha definito geograficamente l’ambito dell’alto mare fuori delle giurisdizioni nazionali (200 miglia nautiche o sopra l’estensione delle piattaforme continentali).
L’UNCLOS ha istituito anche il Tribunale Internazionale per la Legge del Mare, che ha giurisdizione sulle attività negli oceani come, per esempio, le trivellazioni illegali, la pesca irregolare, e tutte le questioni legali connesse.
In particolare, l’articolo 192 dell’UNCLOS stabilisce il principio secondo cui «Gli Stati hanno l’obbligo di proteggere e conservare l’ambiente marino».
Uno sguardo al mare… e uno al cielo
Quando nel prossimo autunno i negoziatori intergovernativi dei Paesi dell’ONU s’incontreranno per discutere gli accordi per l’uso sostenibile e per la tutela della biodiversità nelle aree marine al di fuori delle giurisdizioni nazionali, le implicazioni potrebbero essere ancora più vaste.
Infatti, le decisioni che verranno prese avranno un’importante riflesso anche su un altro ambito molto conteso, quello dello sfruttamento dello Spazio.
In questa era, che molti chiamano Antropocene, il mondo è diventato “piccolo” e la colonizzazione della superficie della Luna sembra ormai a portata della nostra tecnologia e immaginazione: chi avrà giurisdizione su queste nuove frontiere? Gli Stati nazionali che guidano le missioni di esplorazione oppure occorre stabilire un quadro normativo sovranazionale nell’ambito delle nazioni Unite?
Il modello che verrà adottato per gli oceani potrebbe fare da precedente agli accordi sullo Spazio.
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