Più volte abbiamo rimarcato come – senza l’impegno concreto da parte delle multinazionali – le pratiche virtuose dei cittadini per combattere l’invasione della plastica rischiano di essere una vana lotta.
Ma se i cittadini indossano i panni dei consumatori e protestano, ecco che allora qualcosa inizia a cambiare. A due anni dal suo lancio, la campagna di Greenpeace No Plastica ha raggiunto un successo che pareva impossibile: convincere una delle più grandi multinazionali a rivedere la propria politica di packaging.
Il tramonto della plastica
Il gruppo in questione è Unilever, uno dei più grandi produttori di prodotti per l’igiene e la casa.
Unilever gestisce 400 differenti marchi che vanno dal settore food a quello dei detersivi. «L’azienda si è impegnata pubblicamente a ridurre di 100 mila tonnellate la produzione di packaging di plastica e dimezzare l’uso di plastica vergine per i suoi imballaggi entro il 2025» spiega Greenpeace.
L’associazione ambientalista non intende però fermarsi. «Adesso chiediamo anche ad altri grandi marchi come Nestlé, Coca-Cola, PepsiCo, Ferrero, San Benedetto e Danone di ridurre l’uso di plastica per confezionare i loro prodotti e investire in sistemi di consegna alternativi».
Ma non è la soluzione definiva
Gli impegni presi da Unilever segnano un importante cambio di rotta.
Ma, secondo Greenpeace, si può fare ancora molto altro. «Ad esempio andando alla radice del problema e, invece di puntare sulla plastica riciclate, investire in modelli di business alternativi basati sullo sfuso e sulla ricarica che non prevedano il ricorso a imballaggi monouso».
Di tutta la plastica prodotta più del 90% non è mai stato riciclato e proprio i flaconi sono tra i prodotti che impiegano più tempo per degradarsi.
Disperso nell’ambiente un flacone resiste 400 anni: come se un contenitore utilizzato da Galileo Galilei o William Shakespeare vagasse ancora per il mare.
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