I leader dei 7 Paesi più industrializzati non sono riusciti a stabilire immediati e condivisi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, rimandando il raggiungimento di un accordo vincolante alla prossima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, in programma a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre prossimi.
Da una parte c’erano i leader europei, capeggiati dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, dall’altra quelli extraeuropei, in particolare gli Stati Uniti, il cui consumo di combustibili fossili è aumentato di un quinto negli ultimi cinque anni.
Alla fine ne è scaturito un “impegno verbale” a sostegno della riduzione globale dei gas serra così come caldeggiata dalla Commissione sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, che ha posto come obiettivo quello di fermare il riscaldamento medio del Pianeta a + 2 °C rispetto all’era preindustriale (circa al 1900). Si è trattato di una mera riconferma dell’Accordo di Copenhagen del 2009.
I leader del G7 hanno comunque dichiarato l’impegno a lungo termine di “decarbonizzare” l’economia globale, in modo che sia chiaro ai capitali e ai mercati finanziari che gli investimenti più redditizi saranno quelli nelle tecnologie a basso utilizzo di combustibili fossili. Con l’elettrico ancora frenato dai limiti tecnologici delle batterie, questi investimenti vengono, per così dire, indirizzati prevalentemente sui biocombustibili.
Un modello altamente “energivoro“
Se guardiamo agli Stati Uniti, il Paese più “energivoro del G7”, il consumo del carbone è in declino, il petrolio è stabile, il gas in crescita. Ma se, nel loro complesso, dal 2010 al 2014 i combustibili fossili sono incrementati di quasi il 20%, altrettanto consistente è stata la crescita delle fonti di energia rinnovabili. Con queste premesse, è difficile che il successore di Obama riesca a raggiungere l’obiettivo di tagliare del 17% le emissioni entro il 2020. L’adesione dell’amministrazione americana all’Accordo di Copenhagen è, infatti, “non vincolante”. Gli strumenti d’intervento in mano al presidente americano sono le direttive federali dell’EPA (U.S. Environmental Protection Agency) e le politiche d’incentivazione attraverso i “carbon credits”.
Ma sul fronte opposto, progetti quali il gigantesco oleodotto di Keystone e l’estrazione di petrolio e gas dai terreni pubblici sono in pieno contrasto con le dichiarazioni di decarbonizzazione.
La situazione nei Paesi in via di sviluppo
Secondo Tim Gore, presidente di Oxfam – associazione noprofit per l’accesso al cibo e le politiche energetiche nel terzo mondo -: “I Paesi in via di sviluppo hanno bisogno di misure finanziarie credibili, non di una serie di trucchi contabili. I Paesi più ricchi del mondo contribuiscono solo al 2% dei finanziamenti che sono necessari ai Paesi poveri per adattarsi ai cambiamenti climatici”.
Una delle maggiori critiche che viene fatta all’Accordo di Copenhagen è che si basa principalmente sul macchinoso sistema dei “carbon credits”. Servirebbero, invece, soluzioni più concrete e pragmatiche per ridurre la deforestazione e preservare le coltivazioni locali, minacciate dagli investimenti agricoli internazionali. Con la sola politica dei “carbon credits”, invece, si arriverebbe all’assurdo che Paesi del terzo mondo “deforestati” dalle multinazionali verrebbero anche “puniti” per avere un bilancio ambientale negativo.
Cina e India, dal canto loro, contestano come ingiusto il piano, perché secondo loro le economie di Stati Uniti ed Europa si sono potute sviluppare sfruttando fonti di energia economica e inquinante. E ora vogliono negare questo diritto ai nuovi Paesi in crescita. La Cina, attualmente, è il maggior produttore di emissioni di CO2, sebbene il suo consumo di petrolio pro-capite sia ancora inferiore a quello degli USA.
I sostenitori del piano di riduzione delle emissioni di gas serra controbattono con le cifre: i cambiamenti climatici causerebbero nel mondo ogni anno circa 315 mila vittime.
Mano al portafogli
Una delle dichiarazioni più interessanti del G7 riguarda la conferma dell’impegno a rendere operativo entro quest’anno il Green Climate Fund (GCF), previsto dall’Accordo di Copenhagen.
Si tratta di un aspetto chiave per l’attuazione delle politiche climatiche: l’istituzione finanziaria dovrebbe raccogliere da fonti governative e private fondi per circa 100 miliardi di dollari da redistribuire tra i Paesi in via di sviluppo, per assisterli e finanziarli nelle attività di adattamento e limitazione dei danni causati dai cambiamenti climatici.
riproduzione consentita con link a originale e citazione fonte: rivistanatura.com