Il cocco ha preso il posto dell’olio di palma: cibi e cosmetici sempre più spesso riportano la noce esotica tra gli ingredienti.
E, con l’arrivo dell’estate, il cocco trionfa anche come frutto.
Eppure, si tratta di un prodotto poco sostenibile che, per essere raccolto in grandi quantità, sfrutta gli animali.
Animali alla catena per raccogliere le noci di cocco
In Thailandia, i frutti vengono colti impiegando macachi (Macaca nemestrina) appositamente addestrati, come mostra questo video.
«Gli animali sono assicurati al proprietario a terra da una lunghissima catena – spiega la Lav –. Ogni scimmia è in grado di arrampicarsi sugli alberi e far cadere anche 1600 frutti al giorno, mentre un umano arriva a 80. I primati lavorano 8 ore al giorno, con una pausa per mangiare e il resto del tempo lo trascorrono a catena. Si tratta di una vera e propria forma di sfruttamento animale».
Quali sono i maggiori produttori
Secondo le stime di World Atlas, l’Indonesia è il primo produttore mondiale di cocco, con 183 milioni di tonnellate. Seguono le Filippine, con 153 milioni di tonnellate e l’India, con quasi 120 milioni di tonnellate di cocco raccolte ogni anno.
La Thailandia, invece, è al nono posto in classifica, ma il 99% delle noci raccolte è frutto proprio del lavoro delle scimmie. «Le noci colte dai macachi Thai sono, inoltre, di una varietà utilizzata per l’industria cosmetica – conclude l’associazione –. Non è facile, ma è possibile, verificare individualmente la provenienza del cocco e dei suoi derivati, in attesa di certificazioni che ne garantiscano la provenienza etica, equa e solidale, anche nei confronti degli animali».
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