Nel lasso di tempo compreso tra il 2008 e il 2012 la richiesta di olio di cocco è aumentata dell’800%.
Questo ingrediente è passato dall’essere un surrogato dei grassi animali in prodotti di scarsa qualità a panacea per tutti i mali.
All’olio di cocco, infatti, sono attribuite virtù miracolose come proprietà antivirali, antibatteriche, antifungine e antimicrobiche
In cosmesi è ampiamente utilizzato, tanto come trattamento di bellezza per pelle e capelli quanto come dentifricio per curare la carie. Recentemente, questo olio vegetale ha iniziato a fare capolino anche nelle ricette occidentali e nelle liste degli ingredienti dei prodotti confezionati.
Ma si tratta davvero di un prodotto green oppure, come per l’olio di palma, il prezzo più alto lo paga l’ambiente?
Concentrato di grassi saturi
Dal punto di vista nutrizionale, l’olio di cocco è composto al 90% da grassi saturi, mentre tra gli oli vegetali è quello con la minore quantità di acidi grassi insaturi. Il suo componente più importante è l’acido laurico, abbondante anche nei latticini, nei grassi animali e in altri oli di origine tropicale, in grado di aumentare significativamente i livelli del cosiddetto colesterolo buono (HDL), contrastando così i problemi cardiovascolari.
L’ampio utilizzo in cucina deriva dal fatto che si tratta di un prodotto che non irrancidisce e che resiste alle alte temperature.
Il processo di produzione parte dalle noci di cocco: la buccia viene rimossa, la polpa essiccata e poi pressata per ottenere l’olio.
Sulle nostre tavole l’olio di cocco arriva dopo essere stato raffinato e lavorato. Non di rado è sottoposto al processo di idrogenazione.
L’impatto ambientale
L’olio di cocco costituisce circa il 20% di tutti gli oli vegetali consumati. Se, sotto il profilo nutrizionale, l’olio di cocco e quello di palma hanno molti punti in comune, lo stesso non si può ancor dire dell’impatto ambientale.
Nonostante ciò, non si tratta di un prodotto del tutto sostenibile: l’olio di cocco viene coltivato prevalentemente in Malesia e nelle Filippine, dove per far posto alle colture intensive, sono state sradicate intere foreste di mangrovie, esponendo il territorio ad alti rischi idrogeologici in caso di alluvioni o calamità naturali. Inoltre, in queste zone dal clima umido, le coltivazioni intensive richiedono un utilizzo massiccio di pesticidi.
Resta, infine, il dilemma etico sul compenso riconosciuto ai lavoratori locali, non sempre retribuiti con salari equi e sottoposti a condizioni lavorative dignitose.
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