Attraversano come fulmini le scoscese montagne della Sierra Madre Occidentale calzando soltanto dei sandali di gomma. Sono i leggendari tarahumara, la cui vita è regolata dalla parola korima, ovvero, condivisione.
di Gianluigi Di Maio
l treno della Chihuahua Pacific Rail ha iniziato la sua scalata tra le gole della Sierra Madre Occidentale, in Messico.
L’alternarsi di ponti e tunnel permette al Chepe, come lo chiamano i locali, di arrampicarsi sui ripidi pendii regalando ai suoi passeggeri paesaggi mozzafiato che culmineranno nel punto panoramico del Divisadero. Siamo a 2.000 metri di altitudine, sotto di noi un incrocio di tre gole che si ricongiungono e che rendono complicato arrivare alla valle.
La visuale da questo belvedere mi lascia assolutamente senza fiato: per la prima volta posso ammirare dall’alto l’assoluta immensità di questo territorio in cui mi sto inoltrando alla ricerca del mitico popolo corridore.
Il treno lentamente riparte in direzione della città di Chihuahua. Resto in piedi sulla banchina con il mio zaino, mi guardo intorno e respiro l’aria fredda della montagna: nevica.
Sono finalmente giunto nella terra dei tarahumara (piedi leggeri), come furono chiamati i rarámuri dagli spagnoli quando giunsero nella Sierra Madre Occidentale, nel XVI secolo. L’aggressività dei conquistadores spinse questo popolo, schivo e non belligerante, a rifugiarsi in grotte negli angoli più inospitali della Barranca del cobre (Canyon del rame, così chiamato per le venature verdastre delle sue pareti), dove per secoli il loro modo di vivere è rimasto immutato.
Questi territori poco accessibili e impervi, nei secoli a venire, divennero anche rifugio per emarginati e fuorilegge, che disperdendosi nel fondovalle riuscivano a cancellare le loro tracce.
Il capitano di cavalleria degli Stati Uniti, John Bourke, durante un inseguimento del capo apache Geronimo, scrisse: «Guardare questo posto è magnifico, entrarci è l’inferno». Ancora oggi non esistono centri urbani, se non quelli costruiti nel secolo scorso dalle compagnie minerarie e attualmente abbandonati o parzialmente abitati dai discendenti dei minatori messicani. Batopillas è uno di questi.
Terra dei narcos
Percorrere la strada che porta a questo piccolissimo villaggio, situato tra le gole della Barranca, è di per sé un’ avventura. Si passa velocemente dai 2.000 metri di altitudine del paesino di Creel ai 150 m di Batopillas percorrendo con un vecchio pulmino una strada sterrata, scavata su una roccia friabilissima, che ritarda da anni la possibilità di creare un vero collegamento stradale con il resto del Messico.
Prima di attraversare un ponte, unico ingresso al villaggio di Batopillas, il pulmino si ferma a un posto di blocco; un uomo armato scruta all’interno del veicolo e, dopo una veloce occhiata a tutti noi, fa segno al conducente di continuare. Nelle settimane successive avrò la conferma che il villaggio è un centro di raccolta e smistamento della droga, sotto il controllo del clan dei Sinaloa. Il clima subtropicale di queste vallate ha reso i terreni ideali per la coltivazione di oppio e marijuana.
Uomini armati di kalasnikov e bombe a mano pattugliano le strade e, anche se non interferiscono in alcun modo con la vita dei cittadini, sono un ovvio deterrente allo sviluppo di qualsiasi forma di turismo. Nonostante questa situazione, Batopillas è stato dichiarato uno degli 80 “Pueblo Magico” del Messico. Appellativo con il quale il ministero del Turismo cerca di valorizzare cittadine che, attraverso la loro tipicità e il fascino indiscusso, mantengono viva la cultura e la storia messicana. La popolazione dal canto suo, non potendo contrastare l’attività dei narcos, cerca di sopperire a questo “disagio” accogliendo gli sporadici visitatori con gentilezza, ospitalità e un’estrema disponibilità.
A Batopillas m’imbatto in Raffael, custode del museo del villaggio e grande conoscitore della regione. È lui che mi mette sulle tracce di Arnulfo Quimare, uno dei più conosciuti corridori rarámuri.
Pur avendo ormai fama internazionale, ottenuta grazie alle vittorie in numerose ultramaratone, i raramuri continuano a condurre una vita semplice e rurale fatta di agricoltura di sussistenza, in piccole abitazione disseminate in luoghi inaccessibili della Sierra Madre Occidentale. Per raggiungere Arnulfo, inizio ad avventurarmi nella Barranca attraverso la rete di sentieri, spesso così ripidi da far pensare di aver sbagliato strada, che hanno forgiato nei secoli le gambe di questi grandi corridori. Mi sposto da una comunità all’altra, ma conoscere i tarahumara non è cosa semplice. Sono individui riservati e non accettano intrusi nel loro sistema di vita.