I territori poco accessibili e impervi della Sierra Madre Occidentale sono la terra dei tarahumara (piedi leggeri), come furono chiamati i rarámuri dagli spagnoli nel XVI secolo.
di Gianluigi Di Maio
Leggi qui la prima parte dell’articolo
Per entrare in contatto con i tarahumara loro ci vuole tanta pazienza. I fondamenti del bon-ton tarahumara nell’approccio a un nucleo abitativo impongono di sedersi a una decina di metri e aspettare: se nessuno si avvicina, è buona educazione alzare i tacchi e andar via; ma anche quando riesci a ricevere un invito, potresti trascorrere ore in loro compagnia senza che ci sia uno scambio di parole.
All’inizio è imbarazzante se non irritante, ma con il passare dei giorni cominci ad apprezzare la loro discrezione; usano le parole solo se strettamente necessarie, niente di superfluo: sguardi e piccoli gesti sono spesso più esaustivi di tante inutili chiacchiere.
Le comunità sono composte da poche decine di famiglie che vivono in case di fango, oggi coperte da tetti di lamiera, a grande distanza le une dalle altre.
L’economia è ancora basata sul baratto e non prevede l’uso esclusivo del denaro. La condivisione è alla base delle relazioni tra rarámuri, concetto definito dalla parola korima, difficilmente traducibile nella nostra lingua, con la quale s’intende l’obbligo della distribuzione della ricchezza per il bene di tutti. La korima permette a un membro della comunità di andare da uno più ricco e chiedergli mais e fagioli, senza che il gesto sia considerato elemosina.
In alcuni casi, un membro di una famiglia povera può anche trasferirsi in una più ricca, partecipando ai doveri della casa, come lavorare i campi, accudire i bimbi o filare la lana, finché sarà necessario. In questo modo si permette un’equa redistribuzione delle ricchezze all’interno della comunità.
L’occupazione principale è la coltivazione di mais, alla base della loro alimentazione, e la coltura dei fagioli, il principale apporto proteico della loro dieta. Il consumo di carne è limitatissimo, anche se si allevano maiali che hanno sostituito la caccia del cervo, specie protetta; sporadicamente si utilizza carne essiccata di serpente. La principale bevanda alcolica è la birra di mais, della quale i rarámuri abusano ogni qualvolta c’è una festa.
Dopo due giorni di cammino, arrivo davanti alla sua casa; aspetto un’ora prima di incrociare lo sguardo di due ragazzini, che alla domanda «Avete visto Arnulfo?» scrollano semplicemente le spalle e si allontanano. Chiedo allora a un tarahumara che sale dalla valle correndo, il quale m’indirizza a un’altra comunità. Trascorrerò giorni muovendomi da una comunità all’altra alla ricerca del famoso corridore.
Nulla di fatto; le informazioni, già difficili da ottenere, si rivelano spesso infondate. Fino al giorno in cui ho la fortuna di incontrare Carlos, fratello di Mario Muños, il “manager” di Arnulfo. Ottengo finalmente una valida dritta: «Arnulfo è partito alla volta degli Stati Uniti per una gara…».
Ho un tracollo e a un tratto sento tutta la stanchezza assalirmi! «… ma se vuoi – continua – puoi rimanere da me questa notte e domani ti presento Miguel Lara, l’astro nascente che anche quest’anno, come ha fatto negli ultimi tre anni, vincerà la Ultramaratona di Urique». Il mio morale è alle stelle, dopo tanti giorni di trekking finalmente avrò modo di conoscere un grande corridore tarahumara.
Negli ultimi anni i tarahumara hanno suscitato molto interesse, soprattutto da parte della medicina sportiva, per la loro incredibile resistenza nella corsa podistica. Infatti, nel campo delle ultramaratone (da due a quattro maratone consecutive senza soste) non hanno rivali al mondo.
Sono state raccontate storie leggendarie sulla loro incredibile resistenza alla corsa, ma una cosa è certa: corrono anche centinaia di chilometri di fila e lo fanno anche in tarda età, senza soffrire per nessuno degli infortuni comuni tra i corridori occidentali.