I tarahumara della Sierra Madre Occidentale hanno suscitato molto interesse per la loro incredibile resistenza nella corsa podistica.
di Gianluigi Di Maio
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Le ragioni della loro incredibile attitudine alla corsa di resistenza sono sicuramente da attribuire principalmente a due fattori: il primo è la dieta ricca di fibre, cereali e legumi e povera di proteine animali; il secondo fattore è quello che ha destato più curiosità nel mondo podistico.
I tarahumara corrono con dei sandali, chiamati huarache, composti da una suola di gomma ricavata da vecchi pneumatici e da un’unica stringa di cuoio, sapientemente allacciata. Lo scopo del sandalo è semplicemente quello di proteggere il piede dalle rocce taglienti disseminate sui loro sentieri, ma assolutamente non quello di correggere la postura del piede, come avviene con le nostre scarpe “superammortizzate”.
Così facendo, la falcata sfrutta la flessione naturale data dalla morfologia del piede e dell’arco plantare, senza caricare ginocchia e schiena. Risultato: nessun tarahumara soffre di tendiniti, lombalgie e problemi articolari.
Nel 2002 uno statunitense, soprannominato Caballo Blanco e che viveva da anni nella Sierra, decise di organizzare un’ultramaratona di 50 miglia (oltre 80 km). Un manipolo di corridori chabochi (come vengono chiamati gli uomini bianchi dai raramuri) raggiunse il villaggio di Urique per presentarsi alla linea di partenza a fianco dei corridori tarahumara confluiti lì a piedi dai villaggi, distanti anche 100 km. Arnulfo Quimare vinse la prima edizione di quella corsa che oggi è chiamata “Ultra Caballo Blanco”, arrivata alla sua 14a edizione.
Trascorro una fantastica giornata con Miguel Lara, che mi racconta del suo amore per la natura e per la corsa. Quando gli chiedo quale sia l’allenamento per affrontare queste corse sovrumane, mi risponde alzando le spalle: «Nulla, quando mi devo spostare da un posto all’altro corro e lavoro al fiume caricando pietre per l’edilizia sui camion con la forza delle gambe e delle braccia».
È tornato da poco dalla California dove ha stravinto una gara di 150 km. Gli chiedo se non amerebbe trasferirsi negli Stati Uniti, come più volte gli è stato proposto. Mi risponde che non ne vede il motivo, perché non è assolutamente attirato dalla modernità statunitense ed è orgoglioso di vivere nella sua casa di mattoni e lamiera zincata, con la moglie e il figlio nato da pochi mesi, e non vede quali potrebbero essere i reali vantaggi di una vita all’occidentale.
Sarebbe a questo punto da chiedersi se questo popolo, che è riuscito a sfuggire alla conquista ispanica nei secoli scorsi, riuscirà a sfuggire anche alla modernizzazione. Il governo messicano, infatti, progetta di creare un polo turistico di massa, nel cuore del territorio tarahumara, da affiancare al programma dei “Pueblos magicos de Mexico”. Sono stati progettati un aeroporto nella cittadina di Creel, un complesso alberghiero nel Divisadero, un parco giochi tra le gole del Canyon e un finto villaggio tarahumara. Soldi stanziati a beneficio di pochi privati e che rischiano di rivolgersi contro un popolo che ancora oggi vive guidato da un concetto nobile come il korima.