Non è il primo articolo che scrivo sulla plastica, ma dubito che sarà l’ultimo, anche se mi piacerebbe. Da quando si è cominciato a parlare delle isole di plastica nel Pacifico, l’argomento è diventato di importanza globale suscitando reazioni a livello planetario paragonabili alla battaglia contro le armi nucleari. Indubbiamente è un buon segno per la crescita di quella che, per semplificare, ci piace definire ‘coscienza ecologica’. La plastica è tra noi, ovunque, e soprattutto in mare, forse perché qui non riusciamo a nasconderla tanto bene; cosa non facile perché si stima che, soltanto di quella che vediamo galleggiare, ce ne siano 250.000 tonnellate. Il problema è che questa è solo una parte degli 8-10 milioni di tonnellate di questo materiale (che sarebbe più corretto chiamare ‘plastiche’ date le enormi differenze tra un tipo e l’altro) che finiscono in mare ogni anno e che nel 2050 ci porteranno ad avere più plastica che pesce. Il tutto è aggravato dal fatto che anche gli oggetti più grossi progressivamente si spezzettano, diventando per gli organismi marini particelle riconosciute come cibo anche se tali non sono, trasformando persino quella che va sotto il nome di plastica per alimenti in plastica “alimentare”. Per questo motivo, la foto di Domenico Tripodi, che mi ha colpito moltissimo quando l’ho vista per la prima volta su Facebook e che, confesso, avevo scambiato per la spoglia di un gamberetto alla deriva nel mare, mi è subito apparsa perfetta per riparlare di plastica.
Miliardi di particelle
Quel frammento trasparente così simile a un crostaceo ci fa capire come non sia così difficile che un animale marino sbagli e inghiotta plastica nella foga della caccia. Le cose peggiorano quando le dimensioni diventano così piccole da rivaleggiare con quelle del plancton. Secondo taluni studi a oggi si contano circa 51mila miliardi di particelle micro-plastiche disperse (500 volte il numero di stelle nella nostra galassia), un inquinamento antropogenico che sta danneggiando fortemente oltre 600 specie di animali (la 601a sarà l’uomo), da quelle che nuotano vicino alla superficie e grandi come le balenottere azzurre a quelle che vagano nelle profondità estreme delle fosse oceaniche e che misurano pochi centimetri o meno. Le microplastiche (con diametro inferiore ai 5 mm) hanno altri effetti. Per quanto molti considerino la plastica un materiale inerte, nel lungo periodo essa può perdere tale caratteristica e diventare un substrato sul quale possono insediarsi batteri e contaminanti come metalli pesanti e inquinanti organici persistenti i quali, come è noto, tendono a bioaccumularsi lungo la catena alimentare degli oceani fino ai livelli più elevati, inclusi gli esseri umani. E così il finto gamberetto immortalato da Tripodi diventa il fantasma e il simbolo di una minaccia incombente per combattere la quale dobbiamo scendere in campo tutti, nessuno escluso, ciascuno con i mezzi di cui dispone. Volete vedere che nel 2050 qualche nostro lettore forse si ricorderà di queste pagine?