Volevo iniziare questo articolo celebrando il rispetto per il cibo. Niente di apologetico, per carità. È bene chiarirlo subito: se siete fra quelli che postano piatti su Instagram, terminate pure qui la lettura. Idem per quelli che ostentano titoli di gastronomia sugli scaffali della libreria, che venerano gli chef stellati, che hanno il tablet zeppo di app culinarie, che si considerano consumatori critici e moderni perché vanno da Eataly, che hanno la pasta madre in frigo e credono che saper cucinare tagliolini d’uovo marinato equivalga ad avere scritto Anna Karenina.
In un Paese di cittadini gourmet, prossimo a diventare una gastrocrazia, è facile ricevere un po’ di attenzione: basta parlare di salame alla birra, scalogno e cake designer. Cala l’interesse quando ci si domanda perché viviamo in un mondo dove circa un miliardo di persone soffre la fame e due miliardi sono sovrappeso, o perché i manager delle multinazionali che dominano il mercato alimentare sono presenti in tutti i consessi globali dove si disegnano le politiche per la salute.
Se poi si decide di celebrare il rispetto del cibo, così come lo intendevano i nostri nonni che non gettavano nulla nelle pattumiere, che trovavano del tutto naturale consumare prodotti locali e di stagione e che con il loro lavoro nei campi – perché alla fine, non dimentichiamolo, siamo quasi tutti figli o almeno nipoti di contadini – presidiavano e proteggevano il paesaggio italiano, ebbene – dicevo – se si decide di parlare di tutto questo si corre il rischio di restare in quattro gatti. Se state ancora leggendo, possiamo andare avanti.
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