Quand’è che abbiamo smesso di essere il Belpaese, il giardino d’Europa, il laboratorio a cielo aperto dove sono fiorite arte e scienza, il baricentro di un sapere che conquistò tutto il mondo?
Qualcuno dice che dopo il Rinascimento, l’epoca di geni come Leonardo, Michelangelo, Raffaello e Bramante, è cominciato il nostro declino. Eppure in seguito abbiamo avuto Caravaggio, Galileo Galilei, Gian Lorenzo Bernini, Giambattista Tiepolo, Giuseppe Piermarini, Alessandro Volta, Giuseppe Verdi, Antonio Meucci, Guglielmo Marconi, Enrico Fermi, solo per ricordare alcuni nomi che hanno fatto grande la nostra storia e hanno cambiato il mondo. Sono state ideate la reggia di Caserta e il suo parco, le ville di delizia lombarde, venete, laziali e palermitane, le città tardo barocche della Val di Noto, le residenze sabaude torinesi, il teatro alla Scala; l’elenco potrebbe proseguire a lungo.
Le tenebre sono scese sul Belpaese quando si è cominciato a sventrare brutalmente città antiche e a trasformare selvaggiamente coste, colline e campagne in agglomerati di cemento. I mille tentacoli di questa furia edilizia hanno trasformato non soltanto il celeberrimo paesaggio italiano, ma gli italiani stessi. Un esercito di affaristi senza scrupoli ha reso cronica l’anarchia e stabile il caos. L’urbanizzazione italiana è il frutto di un disordine sociale e politico e di questo disordine si è nutrita per decenni generando un circolo vizioso da cui non siamo più usciti. Purtroppo tutti gli errori commessi in passato nella gestione del territorio si pagano anche a distanza di molto tempo; anzi il male una volta compiuto ingigantisce nelle sue conseguenze come una frana (e scusate per l’analogia che rinvia a tragedie vecchie e nuove).
È proprio in quel momento, durante il quale i trombettieri dello sviluppo a ogni costo celebravano la modernità (sempre ridente, funzionale e gagliarda, è ovvio), che abbiamo permesso all’apparenza, all’approssimazione e al rifiuto sistematico della ragione e della cultura di prendere campo. Poi sono arrivati gli anni Ottanta ed è successo il resto: le abbronzature hanno smesso di seguire il ritmo delle stagioni, gli stilisti leopardati sono diventati il simbolo del Paese che fu di Dante e di Giotto e siamo diventati tutti quanti esperti di marketing e branding, ostinati opinionisti, sfrontati faccendieri. Nel mondo dell’apparire è svanito il silenzio operoso, nessuno più ha avuto voglia di vegliare di notte sulle carte. È nata così la nuova Italia, dove non servono le competenze e men che meno la modestia, la misura, l’attenzione agli altri. Dove primeggiano carisma, doti di leadership, proclami, battute e reazioni piccate.
Mentre parte dell’Europa accelerava il passo, mentre i muri crollavano e nuove economie emergevano, noi siamo diventati il Paese degli eterni adolescenti, dei soprusi, della corruzione, della politica oscura e bizantina, della malasanità, delle mezze verità, delle tragedie annunciate, dei condoni, delle cospirazioni affaristiche, delle mazzette, del “volemose bene e annamo avanti”, delle spartizioni, del toto-sottosegretari, della deriva volgare, delle finte privatizzazioni, delle approssimazioni, degli imbrogli, degli inciuci, degli scandali a go-go, dell’inarrestabile dissesto idrogeologico, delle direttive europee disattese, della munnezza per strada, sparsa sui campi e bruciata a cielo aperto, delle violenze alle persone, al territorio, alla reputazione e alla nostra stessa storia.
Italiani, popolo di santi, poeti e navigatori, o meglio: popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori e trasmigratori. È la parte rimasta più famosa di un discorso che Benito Mussolini pronunciò nel 1935 dopo che le Nazioni Unite avevano condannato l’Italia per l’aggressione all’Abissinia. Già rivisitata nel 1962 da Totò, che ne “Lo smemorato di Collegno” pronunciò la celebre battuta “Il nostro paese è un paese di navigatori, di santi e di poeti… e di sottosegretari”, ora meriterebbe un ulteriore aggiornamento essendo rimasto solo un paese di sarti, sottosegretari e speculatori.
Una parte di noi è consapevole di ciò che siamo diventati: un popolo da operetta, un po’ cialtroni, parecchio pasticcioni, mezzi disonesti, troppo individualisti. Ma, alla fine dei conti, simpatici, generosi, pieni di gusto e di talento, geniali. Questo almeno crediamo noi. All’estero, invece, ci guardano ormai come gli scimpanzé allo zoo: simpatici da vedere, meno da invitare a cena. Anche se sempre eleganti, oh come siamo eleganti!
riproduzione consentita con link a originale e citazione fonte: rivistanatura.com