Sta facendo discutere mezzo mondo il lungo articolo di Jonathan Franzen intitolato Carbon Capture apparso lo scorso aprile su The New Yorker e ora ripreso in Italia da Internazionale con il titolo I dilemmi di un ambientalista. Il celebre scrittore americano ha lanciato una provocazione che può essere riassunta in questa domanda: è giusto che la lotta al cambiamento climatico sia la priorità del movimento ecologista?
Le tesi esposte in Carbon Capture sono state in buona parte anticipate dalle ventuno riflessioni che compongono Più lontano ancora (Farther away) pubblicato nel 2012 . Nel capitolo introduttivo, Il dolore non vi ucciderà, Franzen racconta della sua trasformazione da ambientalista rabbioso e disperato a birdwatcher e di come questa passione gli abbia restituito serenità: “Poi, però, mi capitò una cosa strana. È una storia lunga, ma in pratica mi innamorai degli uccelli. Non cedetti senza opporre resistenza, perché essere birdwatcher è una cosa da sfigati, perché tutto ciò che rivela una passione autentica è per definizione una cosa da sfigati. Eppure a poco a poco, mio malgrado, la coltivai (…) ogni volta che guardavo un uccello, qualsiasi uccello, anche un piccione o un passero, il mio cuore traboccava d’amore”.
Questa passione anima anche un altro brano dello stesso libro, Cieli silenziosi. A un certo punto della sua vita Franzen venne nel Mediterraneo per intervistare i cacciatori e i bracconieri che massacravano gli uccelli: “L’Italia è una lunga forca caudina per i migratori alati”. Il capitolo si chiude con il pellegrinaggio ad Assisi e questa intrigante riflessione: “Ho l’impressione che, se gli uccelli selvatici sopravvivranno nell’Europa moderna, lo faranno alla maniera di quei piccoli, antichi edifici francescani, riparati dalla strutture di una Chiesa vanagloriosa e potente: come amate eccezioni alla regola”.
Ho letto e riletto decine di volta questo passaggio, perché la scrittura di Franzen è di quelle che incantano e ti avvincono. E ieri ho letto con avidità “I dilemmi di un ambientalista”. Sono tornato più volte su alcuni passaggi, li ho condivisi, mi è sembrato di trovare espressi nel migliore dei modi, e in modi che non saprei mai raggiungere, molti dei miei pensieri: il rifiuto di un ambientalismo millenarista e dell’ossessione per il senso di colpa, le difficoltà ad accettare la supremazia del riscaldamento climatico come la questione ambientale del nostro tempo, le responsabilità individuali mirabilmente riassunte nella teoria della “buona democrazia”.
Ho ringraziato Marta per avermi segnalato l’articolo e ho acceso la Tv. Su Rai Storia stava andando in onda un documentario intitolato L’ultima chiamata. Racconta la storia di The Limits to Growth (I limiti dello sviluppo), il libro pubblicato nel 1972 da un’idea di Aurelio Peccei (fondatore del Club di Roma) che diffuse un messaggio ignorato da molti all’epoca, ma che oggi appare attualissimo, ovvero che la Terra è un sistema finito e quindi la crescita economica illimitata, a cui tutti sembrano ambire, non può che condurci al collasso.
A un certo punto sullo schermo è apparso Dennis Meadows con la sua barba bianca, uno dei coautori de The Limits to Growth, e ha cominciato a spiegare che ci sono due modi di vedere le cose. Da una parte gli scienziati chiariscono che il riscaldamento globale è una cosa terribilmente seria e che se non faremo presto qualcosa le conseguenze saranno infernali; dall’altra ci sono quelli che dicono che non sono interessati al riscaldamento globale e comunque i ghiacciai si stanno espandendo. Allora gli scienziati, dati alla mano, controbattono che i ghiacciai in realtà si stanno ritirando rapidamente. Dall’altra parte rispondono che non è così, tanto che gli orsi polari stanno meglio oggi di una volta. Gli scienziati, sempre dati alla mano, spiegano che gli orsi polari non stanno affatto bene, galleggiano su piccole banchise e non trovano più nulla mangiare. Ma qualcuno continua a rispondere che non è interessato al riscaldamento globale.
Con i dilemmi di Franzen e le certezze di Meadows mi sono ritirato a meditare in un notte insonne.
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