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La caccia che fa bene alla natura

La caccia che fa bene alla natura

Armando Gariboldi Armando Gariboldi 23 Mar 2018

Gli animalisti le odiano da sempre, eppure hanno svolto, e in parte ancora svolgono, funzioni utili per la conservazione della natura: sono la caccia e le corride.
Che sia chiaro sin da subito: siamo eticamente e ideologicamente contrari a tali attività tradizionali, soprattutto per le uccisioni e le inutili sofferenze che provocano a creature viventi e sensibili come gli animali. Tuttavia è importante ricordare il ruolo che hanno avuto soprattutto nella creazione e conservazione di importanti ambienti seminaturali, che a loro volta hanno permesso l’insediamento di popolazioni di numerose specie selvatiche.

Il valore delle riserve di caccia

Ricordiamo, infatti, che se da un lato alcune attività umane, come appunto la caccia, possono essere fortemente impattanti sulla presenza di soggetti di fauna selvatica, dall’altra la mancanza di ecosistemi adatti, anche in assenza di attività venatoria o di altre forme di disturbo, non permette la presenza di moltissime specie animali.
In altri termini, meglio una caccia seria, controllata e programmata che però permetta la creazione di determinate situazioni ambientali, piuttosto che il divieto totale e la conseguente perdita di habitat. È il caso, ad esempio, della maggior parte delle residue zone umide italiane, la cui presenza è quasi sempre dovuta alla loro funzione di riserve di caccia mantenuta sino agli anni ’70. Infatti, non è un caso che le lanche e le paludi più belle delle valli del Ticino e dell’Adda, della Lomellina, del delta del Po e delle paludi venete, ma anche di molte aree costiere residue della Toscana o del Lazio – oggi quasi tutte sedi di parchi naturali e nazionali – si siano mantenute grazie agli investimenti effettuati da ricchi proprietari proprio per svolgere la propria passione venatoria. Andando ancora più indietro, lo stesso parco del Gran Paradiso si è conservato in quanto riserva di caccia reale e ancora oggi diverse lagune e “valli” del delta del Po rimangono in determinate condizioni grazie agli interventi gestionali (e ai soldi) assicurati dai cacciatori.
Lo so che questo discorso può apparire fastidioso per alcuni (e che mi farà probabilmente perdere il consenso di molti lettori) e che certamente non è facile, soprattutto nel nostro Paese, trovare il giusto equilibrio tra gli interessi venatori e quelli di tutela della fauna e della natura in genere, ma io sposo la linea del pragmatismo e ormai sono molti gli esempi di aree un tempo riserve di caccia private che, divenute oasi e affidate alla gestione pubblica dei parchi (sempre più senza soldi e personale), stanno languendo e stanno progressivamente perdendo valore naturalistico e faunistico.

Da cacciatori a ecologisti

Vi è poi la questione culturale: non tutte le persone hanno lo stesso livello di conoscenza, coscienza e sensibilità. Soprattutto per quelle nate in ambiti rurali, la caccia (e la pesca) hanno rappresentato le vie privilegiate per avvicinarsi sin da ragazzini alla natura. Preferisco confrontarmi, anche in modo intenso, magari litigando, con un cacciatore che vedo coinvolto dalla sua passione, piuttosto che trovarmi con platee di giovani adolescenti indifferenti, impegnate solo a smanettare con i loro telefonini, che non sanno distinguere un cinghiale da una capra, ma che soprattutto non sono minimamente interessati a venire a contatto con il modo naturale. Senza poi dimenticare che per molte persone, soprattutto delle generazioni precedenti, la caccia è stato il primo modo, forse un po’ primitivo, di scoperta della natura e che non sono stati pochi gli individui che proprio sparando agli animali hanno preso coscienza dell’anacronismo, oggi, di tale attività. Come esempio eclatante mi viene in mente Fulco Pratesi, fondatore del WWF Italia e scatenato cacciatore in gioventù, che proprio davanti ai mucchi di selvaggina abbattuta conobbe la sua “Damasco”, convertendosi alla causa ambientalista.
Pertanto, come spesso capita, più che un discorso di Sì/No, dovrebbe essere un discorso di “come”, sempre nel rispetto delle leggi vigenti (quindi sono esclusi da questi ragionamenti gentaglia come i bracconieri, da perseguire sempre e in ogni caso).
In un prossimo pezzo affronteremo invece con un taglio analogo un’altra spinosa questione, ovvero la valenza ecologica delle corride o meglio della “filiera” ambientale che ruota attorno ad esse.

© riproduzione riservata
riproduzione consentita con link a originale e citazione fonte: rivistanatura.com
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