Dopo mesi di lotta contro un disastro ambientale che ha pochi precedenti, sul volto dei vigili del fuoco australiani l’angoscia e la tensione hanno per un attimo lasciato spazio al sollievo. È, infatti, arrivata la pioggia, addirittura torrenziale in alcune zone colpite dagli incendi. Tutti, però, sono consci che l’emergenza è tutt’altro che cessata.
Le autorità prevedono che le temperature torneranno ad aumentare entro la fine della settimana e temono che due enormi incendi attivi negli stati di Victoria e del Nuovo Galles del Sud si uniscano formando un gigantesco fronte di fuoco.
Numeri da record e specie a rischio
Intanto, mentre le nubi di fumo acre del bush australiano hanno attraversato l’oceano e sono arrivate fino al Cile e all’Argentina, sono i numeri complessivi a rendere le dimensioni della devastazione: 8 milioni di ettari bruciati in sei stati (equivalenti al territorio di Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Liguria messe insieme), 24 morti, 2.000 case distrutte, quasi 200 persone accusate di aver deliberatamente appiccato gli incendi (molti minorenni), intere cittadine evacuate e milioni di animali morti.
Le stime più prudenti parlano di oltre 500 milioni, oltre 1 miliardo secondo il WWF, e gli scienziati temono che alcune specie della preziosissima fauna selvatica endemica siano scomparse completamente.
I koala, marsupiali che si muovono lentamente, con una popolazione stimata che oscilla tra i 15.000 e i 28.000 individui, hanno subito gravi perdite nei territori del Nordest. Secondo Sussan Ley, ministro dell’ambiente australiano, il 30% dei koala della regione potrebbe essere rimasta intrappolata nei roghi.
Tuttavia molti altri animali non sono stati uccisi direttamente dal fuoco ma dalla perdita di cibo e riparo e persino dalla scomparsa dei loro potenziali habitat di fuga, distrutti dall’attività umana. Tra questi figurano specie già in grave declino come lo scricciolo emù del Mallee (Stipiturus mallee), il pappagallo terragnolo occidentale (Pezoporus flaviventris), il possum di Leadbeater (Gymnobelideus leadbeateri) e il potoroo di Gilbert (Potorous gilbertii), uno dei marsupiali più a rischio di estinzione in assoluto.
Le variabili che influiscono sugli incendi
Eppure gli incendi sono una componente intrinseca dell’ambiente australiano e spesso sono innescati da cause naturali, come i fulmini. Di sicuro non sono una novità: tra il 1967 e il 2013 i principali incendi boschivi australiani hanno provocato oltre 8.000 feriti e 433 morti. Ciononostante questa stagione è eccezionale sia per l’estensione delle aree colpite sia come intensità. Perché è accaduto?
Per rispondere occorre considerare alcune importanti variabili che determinano l’intensità e la velocità del fuoco: combustibile naturale, temperatura ambientale e vento.
Il combustibile
Più pezzi di corteccia, rami, foglie e residui minuti e frammentati sono presenti sul terreno, più rapidamente si propaga il fuoco. E ovviamente quanto più i residui sono secchi, tanto più intense sono le fiamme. L’umidità del combustibile dipende direttamente dal tempo trascorso dalle ultime precipitazioni e dalla quantità di pioggia ricevuta. Inoltre l’olio presente all’interno degli alberi più diffusi in Australia, gli eucalipti, è altamente infiammabile e favorisce la combustione.
La temperatura ambientale
Più alta è la temperatura dell’aria, maggiore è la probabilità che si inneschi un incendio o che questo continui a propagarsi. Più sale la colonnina di mercurio, infatti, più aumenta anche la temperatura interna del combustibile vegetale e si riduce la quantità di calore necessario al raggiungimento della sua temperatura di accensione.
Inoltre la temperatura influisce sul contenuto di umidità relativa dell’aria e l’aria secca favorisce lo sviluppo di un fuoco di maggiore intensità perché la vegetazione, cedendo più velocemente acqua per evaporazione, si disidrata e diventa più facilmente infiammabile.
La velocità del vento
Il vento porta le fiamme dove c’è combustibile fresco e fornisce ai roghi un apporto continuo di ossigeno. È, inoltre, responsabile del fenomeno dello spotting fire, che consiste nel sollevamento in aria di particelle ardenti e nella propagazione dell’incendio con fuochi secondari anche a grandi distanze (di solito decine di metri ma anche fino a 30 chilometri) dal fuoco principale.
Secondo alcuni studi, un vento fino a 12-15 chilometri all’ora non ha grande influenza nella propagazione delle fiamme. Sopra questa soglia, anche un leggero aumento della velocità gioca un ruolo importante nell’allargamento del fronte del fuoco e nella velocità di propagazione.
Una combinazione mortale di fattori
L’analisi di queste variabili permette di comprendere che all’origine dei catastrofici incendi di quest’anno in Australia c’è proprio una micidiale combinazione di caldo estremo, siccità prolungata e forti venti.
Una congiuntura che è quanto meno azzardato considerare slegata dai cambiamenti climatici, come hanno fatto alcuni politici australiani di primo piano, e che è anche cominciata molto in anticipo rispetto al solito, già in agosto, durante l’inverno australe. La primavera 2019 è stata poi la più secca da quando i ricercatori hanno cominciato a registrare i dati, 120 anni fa.
Già a settembre, in una zona tradizionalmente umida come la foresta pluviale del Lamington National Park nel Queensland, era stato distrutto dalle fiamme il Binna Burra Lodge, un storica struttura ricettiva, un evento del tutto inatteso che aveva messo in allarme gli esperti.
E considerando che gli stati del Nuovo Galles del Sud e del Queensland soffrono di una siccità cronica sin dal 2017, è facile immaginare alberi, arbusti e praterie come esche pronte per le fiamme, tanto più che in questi mesi il vento ha soffiato frequentemente sopra i 90-100 chilometri all’ora. Il 18 dicembre il Paese ha anche vissuto il giorno più caldo della sua storia, con una temperatura media registrata di 41,9 °C, con punte di 49 °C.
Alla base di questa situazione sembra esserci l’intensificarsi di un fenomeno climatico estremo che gli scienziati chiamano dipolo dell’Oceano Indiano, più noto come “Niño indiano” per la somiglianza con il suo equivalente del Pacifico. Consiste nel fatto che ai poli opposti dell’Oceano Indiano la temperatura della superficie del mare ha fatto registrare marcate differenze (alte verso le coste africane, molto più basse verso quelle australiane), innescando fenomeni meteorologici violenti: inondazioni in Africa orientale e siccità estrema nel Sudest asiatico e in Australia. In uno studio pubblicato su Nature un team internazionale di ricerca ha dimostrato una correlazione diretta tra l’aumento delle emissioni di CO2 e l’intensificazione degli effetti del dipolo dell’Oceano Indiano.
Insomma, il ruolo dei cambiamenti climatici a livello globale è innegabile e anche quello australiano non fa eccezione. Secondo il Bureau of Meteorology, le temperature medie sono già aumentate di quasi 2 gradi Celsius dal 1920 ma gran parte dell’aumento è avvenuto negli ultimi anni.
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