Luciano Bianciardi e Italo Calvino sono per molti aspetti il giorno e la notte. Outsider scomodo e per nulla integrato il primo, inquadrato nel sistema – per lo meno quello editoriale, che del resto è parte rilevante dell’establishment generale – il secondo.
Eppure c’è una linea di continuità tra La vita agra, di cui ho scritto la settimana passata, e La speculazione edilizia, il libro che ho scelto di affrontare quest’altra volta. Pubblicato nel 1963, ovvero un anno dopo il capolavoro di Bianciardi, il romanzo breve di Calvino, che in realtà era già apparso nella rivista letteraria “Botteghe Oscure”, mette in scena la fragilità del nostro Paese. Nel momento in cui passa dagli stenti al boom economico, l’Italia getta alle ortiche antichi valori e si abbandona alla suggestione dell’arricchimento facile e rapido.
Quinto Anfossi, il protagonista, in barba al suo impegno intellettuale diventa socio di un imprenditore spregiudicato e dedito alla speculazione edilizia e concorre a deturpare la riviera ligure.
Al di là dell’ambientazione geografica scelta dall’autore, le vicende raccontate diventano paradigmatiche di una selvaggia aggressione al paesaggio condotta per l’intera penisola.
Oggi sappiamo bene come sono andate le cose. L’agricoltura abbandonata, l’industria mitizzata, l’assalto abusivo ai colli e alle coste, i centri storici sventrati, la proliferazione di tristi periferie urbane.
La speculazione edilizia è a suo modo un libro profetico. E ora più che mai suona come un triste presagio. La passione italiana per il cemento, che ha soddisfatto l’inclinazione al facile guadagno di molti, non ha esaurito la sua carica suggestiva. Fuori continua la devastazione di città e campagne. Si stanno investendo decine, centinaia di milioni di euro in grandi opere che non servono e in lottizzazioni gigantesche. L’Italia fonda ancora le sue “fortune” sul saccheggio del territorio.
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