Sono state oltre 40 le vittime quest’anno sulle montagne italiane, da giugno a fine agosto, per incidenti legati all’alpinismo. Se a queste si aggiungono quelle per incidenti legati ad altre varie attività outdoor – quali (rimanendo solo in ambienti montani o collinari) il semplice escursionismo, il jumping, il cayoning, il running, la mountain-bike, il parapendio – si superano ampiamente i 100 morti in questa estate 2018, ovvero oltre un decesso al giorno. Tra questi vi sono le 10 vittime della gola del Raganello, nel Parco Nazionale del Pollino.
Ecatombe non casuale
Una vera ecatombe solo in parte legata alle mutate condizioni climatico-ambientali che, soprattutto in montagna, hanno reso più friabili e pericolosi alcuni tratti rocciosi, aumentando il rischio di frane e distacchi improvvisi. Infatti, nella maggior parte dei casi – e soprattutto in quelli che per fortuna non hanno avuto esito fatale, ma solo feriti più o meno gravi (diverse centinaia) – si è osservato non solo un aumento costante del numero di praticanti, ma soprattutto che molti di essi si avventurano senza l’umiltà, la consapevolezza e le capacità necessarie. Per molti sembra che andare in natura sia poco più che assistere ad un documentario, ignorando del tutto anche i rischi più elementari che comunque quasi sempre potenzialmente esistono quando si esce dal salotto di casa e ci si inoltra all’aperto, in un qualsiasi ambiente naturale (e non solo).
Quest’estate il prefetto dell’Alta Savoia ha dovuto chiudere la via «normale» per la vetta del Monte Bianco a chi non aveva una prenotazione al rifugio del Gouter, per evitare un pericoloso sovraffollamento a 4.000 metri (tra 300 e 500 alpinisti al giorno). Lo stesso prefetto pochi giorni prima (dopo che erano stati registrati 4 decessi per incidenti) aveva ricordato che «non si insiste mai abbastanza sulla sicurezza e sul fatto che la montagna è un luogo libero che non può essere protetto; saper rinunciare è una delle chiavi per restare vivi».
Degrado culturale
Scendendo poi a quote solo di poco più basse, e non solo sulle Alpi, soprattutto in punti dove arrivano funivie e seggiovie, si possono osservare situazioni paradossali che sarebbero anche ridicole se non rischiassero spesso di sfociare in tragedie. La casistica è ormai abbastanza standard: signore con i tacchi o mamme con bimbetti in calzoncini e scarpe da tennis su quel che resta del ghiacciaio del Plateau Rosà (3.480 metri) sul Cervino; oppure lui in maglietta e T-shirt e lei in top e calzoncini quasi sulla vetta della Majella, con cane al seguito e rigorosamente senza zaino ma solo con golfino in vita (per cui in caso di repentino maltempo, come spesso avviene in montagna, l’ipotermia era assicurata). O semplicemente anche i “furbi” che salgono a mezzogiorno solo con infradito verso la cima del vulcano sull’Isola di Vulcano o sullo Stromboli.
Atteggiamenti superficiali, spesso frutto di ignoranza ma in alcuni casi anche di maleducazione e protervia. Sul Monte Bianco sono state segnalate diverse situazioni di guide insultate o addirittura aggredite per avere cercato di far rispettare le più elementari regole di sicurezza o per aver segnalato comportamenti scorretti e pericolosi. Salvo poi, quando ci si caccia nei guai, sperare nel soccorso alpino o nei vigili del fuoco e nell’aiuto di volontari che mettono a rischio la propria vita per salvare quella di molti, è il caso proprio di dirlo, incoscienti. Incoscienti non solo dal punto del vista del rischio ma anche di molti altri aspetti, a cominciare proprio dalla consapevolezza di sé, del proprio rapporto con la natura e con gli altri esseri viventi che stanno in quell’ambiente, compresi gli altri esseri umani.
Manca la volontà
Il tema è complesso, ma accanto a una buona dose di superficialità e di inciviltà diffusa che si sta peraltro sempre più riscontrando a tutti i livelli, sono convinto sia in corso, almeno in Italia, una grande spinta che potremmo definire di “analfabetismo di ritorno”. E la natura in questo senso è un specchio implacabile. Non solo, infatti, sono sempre meno le persone in grado, tanto per fare un esempio, di “leggere” correttamente il territorio (che tempo farà, animali e piante presenti, fattori di rischio…) o di usare bene alcuni strumenti basilari (quanti sanno ancora leggere una mappa o utilizzare correttamente una bussola?), senza dipendere da cellulari e gps (che si dà il caso, in molte aree “selvagge” a volte, o anche spesso, non prendono), e sono sempre meno quelli che hanno veramente voglia di farlo!
E le istituzioni, a cominciare ancora una volta dalla scuola, di rado aiutano ad invertire questa situazione, nonostante molto si potrebbe fare. Mentre ancora una volta le lodevoli iniziative di varie associazioni o di alcune importanti realtà locali (pensiamo ad esempio a soggetti come la Fondazione “Montagna sicura” di Courmayeur-AO) a malapena servono per rallentare questo fenomeno di degrado innanzitutto culturale.
Qui sta il problema grave: un miscuglio di ignoranza, presunzione e superficialità che si rivelerà sempre più micidiale. Purtroppo, ad oggi, il risultato appare facilmente prevedibile.
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