È stato presentato a Milano il rapporto 2014 Living Planet, decima edizione della pubblicazione edita ogni due anni dal Wwf. Lo studio esamina lo stato del pianeta e in particolare analizza le popolazioni di oltre 10mila specie di vertebrati. Secondo il Report, molte di queste si sono più che dimezzate negli ultimi 40 anni.
Qui potete scaricare una Sintesi del lavoro.
http://awsassets.wwfit.panda.org/…
I numeri confermano che l’umanità sta chiedendo sforzi troppo grandi alla Terra e che dunque è essenziale “svilupparci in modo sostenibile e creare un futuro dove le persone possano vivere e prosperare in armonia con la natura” come ha affermato Marco Lambertini, direttore generale di Wwf International.
Cosa si debba intendere per sviluppo sostenibile resta ancora una questione aperta, che spesso viene reinterpretata dal soggetto che la promuove. Al riguardo mi siano consentite due riflessioni sulla presentazione italiana del rapporto.
La prima attiene al luogo scelto: lo spazio TIM4Expo alla Triennale, ossia la vetrina che celebra la partnership tra Telecom Italia ed Expo 2015. Ci vorrebbe molto tempo anche solo per riassumere i numerosi scandali che hanno investito la società telefonica negli ultimi decenni, scandali che hanno avuto un forte impatto economico, ma anche sociale e ambientale; le “vergogne” di Expo, invece, sono notizie fresche, sono cronaca che si arricchisce di giorno in giorno.
La seconda considerazione riguarda la scelta di associare alla presentazione del rapporto uno show cooking (sigh!) ispirato alle ricette antispreco del libro “Buttali in pentola”, libro presentato in anteprima al termine della conferenza e che sarà in vendita in tutti gli ipermercati Auchan a partire dal 16 ottobre, Giornata Mondiale dell’Alimentazione.
Ora, non potrei affermare con certezza che Telecom, Tim, il baraccone di Expo e Auchan abbiano responsabilità dirette nella perdita di biodiversità del pianeta, ma sento di poter sostenere una certa lontananza di tutti questi marchi da un serio concetto di sviluppo sostenibile.
La presunzione del Wwf di poter ‘sdoganare’ a proprio piacimento marchi e prodotti ha origini lontane. I vecchi soci ricorderanno la gazzarra scoppiata in un’assemblea a Orbetello negli anni Ottanta, dopo che l’associazione aveva ricevuto una sponsorizzazione dalla Buton, società proprietaria del marchio Vecchia Romagna. Erano altri tempi, e le associazioni ambientaliste godevano di un’altra credibilità. Negli anni seguenti, il Panda è stato affiancato a decine di prodotti, con buona pace dei soci anziani e sdegnati.
D’accordo, per cambiare il mondo bisogna costruire sistemi, stringere alleanze, rafforzare la propria capacità di comunicare. Ma quando per scardinare il sistema si accetta di attingere al sistema stesso, che gioca secondo le regole dei soldi e nient’altro, sappiamo fin troppo bene come vanno a finire le cose.
A me, in fondo, piace ancora pensare che quello del Wwf sia stato un atto di ingenuità: quello di pensare di poter restare al di sopra della situazione, di danzare vicino al baratro, di non farsi inghiottire dentro l’occhio del ciclone. Fatto sta che molte imprese, lontane anni luce da quel mondo di equità e solidarietà teorizzato dall’associazione, da anni possono fregiarsi del simbolo universale della conservazione della natura.
Magari qualcuno mi accuserà di veterocomunismo, eppure la mia non è affatto una lotta contro il capitale, né ho mai teorizzato che sia vietato fare soldi. Anzi, credo che sia giusto fare soldi, ma credo che sia giusto e buono davvero soltanto quando lo si riesce a fare senza ‘abusare’ degli altri. E negli spazi in cui oggi si svolge il rituale del consumo di massa questo non accade, non può accadere; perché l’esistenza stessa di un call center, ipermercato, outlet, grande catena o come diavolo volete chiamarlo si regge su altri principi, che sono quelli dell’acquisto compulsivo e dell’uomo perennemente indebitato.
Ai dirigenti del glorioso Wwf suggerirei di leggere Goffredo Parise e in particolare Dobbiamo disobbedire, un bel libro, bello quanto poco conosciuto, pubblicato da Adelphi, in cui sono stati raccolti gli articoli che lo scrittore pubblicò tra il ‘74 e il ‘75 sul Corriere della Sera in una rubrica di dialogo coi lettori intitolata Parise risponde. Magari cominciando da uno dei più noti, intitolato Il rimedio è la povertà. Il titolo era provocatorio, ma i contenuti non lo erano affatto.
“Povertà non è miseria”, scriveva Parise, “povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere dei beni minimi necessari. […] Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione. Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo. […] Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita”.
Lo scriveva quarant’anni fa, Goffredo Parise. Lo abbiamo dimenticato, o, peggio, non lo abbiamo mai letto.
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