All’alba il cielo era cupo e la pioggia continuava a cadere senza tregua. Una pioggia fitta, incessante, sottile. Una tipica atmosfera novembrina che raffreddava ogni cosa senza nemmeno la necessità di toccarla.
Il meteo non era stato alquanto clemente con noi quel weekend. Avevo deciso di passarlo insieme a mio fratello e ai miei genitori nella nostra casa di montagna, in Val Vigezzo, lasciataci da nostro nonno.
Una grande casa, in pieno e orgoglioso stile liberty. Ogni volta che tornavo, la mia mente iniziava a fare viaggi temporali immaginando come doveva esser stata questa casa nel suo momento di gloria. Il grande camino marmoreo nel salone era il fulcro dei miei pensieri: pensavo alla selvaggina che arrostivano qui, alle enormi pentole di rame e, da irriducibile goloso, alle confetture di mirtilli che io e mio fratello, da bambini, raccoglievamo d’estate all’ombra dei larici.
«L’acqua del tè sta bollendo – annunciò mia madre – Che ne diresti di apparecchiare per la colazione e portare il pane tostato nel salone? È quasi pronto».
Assopito dai miei pensieri, le direttive di mia madre sulla colazione mi portarono alla realtà. Dopo aver preparato il necessario per il pasto più importante della giornata, presi il cellulare per scrivere a mio fratello di scendere.
Una chiamata senza risposta recava il display illuminato. Il numero era sconosciuto così richiamai subito.
«Pronto, chi parla? Sono il dottor Corbetta», chiesi mentre tornavo in cucina da mia madre attirato dal penetrante profumo di caffè.
«Salve, dottore, sono Lucia. La chiamavo per chiederle se almeno oggi posso togliere il collare a Lucky, il mio cane. A me sembra gli dia così fastidio, povero!».
«No, non lo tolga. Il collare Elisabetta serve per evitare che si lecchi o morda la ferita in via di guarigione. Lo deve tenere almeno 15 giorni».
«Dottore, sono Lucia, non Elisabetta».
«È il collare che si chiama Elisabetta, signora!», risposi.
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