Il problema della plastica negli oceani è di portata globale e molti Paesi del mondo lo stanno affrontando con lo sviluppo di tecnologie di raccolta, oppure con strumenti legislativi, come la messa al bando di sacchetti, cannucce per le bibite, ecc.
Ben più difficili da controllare sono però le “microplastiche”: particelle di dimensioni inferiori al millimetro, che derivano dalla lenta decomposizione di oggetti plastici macroscopici, ma anche da alcuni prodotti per l’igiene personale (dentifrici e creme esfolianti con le “microsfere”). Più recentemente, è emersa l’esistenza di un’ulteriore, preoccupante fonte di materiale plastico in mare: le microfibre tessili.
I tessuti in poliestere e derivati hanno letteralmente conquistato il mercato dell’abbigliamento negli ultimi anni, soppiantando i materiali naturali, apprezzati dai produttori per l’economicità e amati dai consumatori per le caratteristiche di easy-care: sono morbidi al tatto, si lavano in lavatrice e non necessitano stiratura. Secondo un lavoro pubblicato sulla rivista Marine Pollution Bulletin, nell’ultimo decennio il consumo mondiale di fibre sintetiche è passato da 16 a 42 milioni di tonnellate, pari al 64% del consumo mondiale di fibre tessili. E questi valori sono destinati ad aumentare rapidamente. Come spiega la stilista Jessica Paglia, l’ascesa del poliestere nel mondo della moda ha seguito l’enorme sviluppo della fast-fashion, ovvero delle grandi catene di abbigliamento caratterizzate dalla commercializzazione di capi d’abbigliamento a poche settimane dalla presentazione sulle passerelle: un ritmo velocissimo, sostenibile solo con la realizzazione di capi in materiale sintetico a basso costo, solitamente provenienti da Paesi Asiatici dove le normative per lo smaltimento dei residui chimici della lavorazione sono decisamente meno stringenti che in Europa.
Ma in quale modo le microfibre derivanti dai capi d’abbigliamento arrivano in mare?
Tramite il semplice lavaggio in lavatrice. Troppo piccoli per essere catturati dai filtri delle lavatrici, nonché dai filtri degli impianti di depurazione domestici e cittadini, i residui di microfibra (700 mila a ogni lavaggio) finiscono nei fiumi, nei laghi e, infine, in mare, dove se ne stanno accumulando quantità impressionanti.
Stando alle più recenti ricerche, ogni anno vengono riversate negli oceani circa 2 milioni di tonnellate di microfibre, di cui 700 mila tonnellate dalle lavatrici domestiche. Al momento, si valuta che negli oceani del pianeta siano presenti 1,5 milioni di bilioni di microfibre.
Esse vengono ingerite dagli animali filtratori, che normalmente si cibano di fitoplancton o zooplancton, si accumulano nei loro tessuti e da lì entrano nella catena alimentare, arrivando fino al nostro piatto.
Non occorre essere clienti della pescheria per essere affetti da questo problema: microplastiche e microfibre sono presenti anche nell’acqua potabile e nel sale da cucina.
Questo problema sta stimolando la rapida evoluzione di soluzioni tecnologiche. Alcune ditte hanno rilasciato in commercio delle speciali “palline”o “sacchetti” cattura-microfibre da usare in lavatrice, ma la loro efficienza al momento non è alta (26% microfibre rimosse); d’altra parte, i sistemi di depurazione di acque libere contaminate da microfibre sono ancora troppo costosi ed energivori per essere applicati su larga scala. La soluzione si sta cercando nei sistemi di filtraggio delle lavatrici.
Nel frattempo, i cittadini possono cercare di ridurre il rilascio delle microfibre con cicli di lavaggio più brevi, a freddo, con detersivo liquido (quello in polvere è più abrasivo e rimuove più particelle) e con un numero ridotto dei giri di centrifuga.
Oppure tornando a scegliere fibre naturali: cotone, lino, canapa.
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