Finalmente il primo gennaio 1818 Mary Shelley vede dare alla luce la propria creatura, quel racconto iniziato una sera di due anni prima in compagnia di suo marito Percy Shelley, Lord Byron e John Polidori, tra le mura di villa Diodati, sulle rive del lago di Ginevra.
La storia è celebre: lo scienziato Victor Frankenstein riesce dopo svariati tentativi a dar vita alla “cosa” (la scrittrice inglese non chiamerà mai la creatura con il termine “mostro”) per poi pagarne le conseguenze. Si tratta di un testo intriso di trasgressioni, la prima tra tutte attraversa i confini di genere, come suggerisce la critica letteraria Nadia Fusini. Che un uomo dia la vita non è nell’esperienza comune della specie umana, dove la prima fondamentale divisione è quella che destina la donna, e non l’uomo, a farsi grembo della riproduzione. In secondo luogo troviamo la trasgressione nei confronti della natura.
Natura violata
È indispensabile concentrarsi sul sottotitolo dell’opera: Frankenstein; ovvero il moderno Prometeo. È questa figura mitica la chiave per comprendere il messaggio insito in quello che costituisce uno dei primi romanzi gotici di fantascienza. Le vicende mitiche che lo vedono protagonista sono molteplici, ma è conosciuto in primo luogo come colui che rubò agli déi il segreto del fuoco per migliorare la vita degli uomini. Francesco Bacone lo indicherà come il fondatore della scienza sperimentale. Una volta individuata la figura di Prometeo è possibile porre una distinzione tra due atteggiamenti che caratterizzano i rapporti della specie umana con la natura, quello prometeico e quello orfico, legato, invece al mito di Orfeo.
Il suggerimento proviene dal filosofo francese Pierre Hadot, che spiega l’atteggiamento prometeico ispirato dall’audacia, dalla curiosità senza limiti, dalla volontà di potenza e dalla ricerca dell’utile; l’atteggiamento orfico, viceversa, è ispirato dal rispetto per i misteri della natura che è bene che restino tali.
A trionfare in Frankenstein è, chiaramente, il primo atteggiamento.
Quello che accade nel testo di Mary Shelley è la realizzazione di un rapporto prometeico con la natura, elemento che tenta di resistere al potere dell’umano a cui nasconde i propri segreti. La specie umana, grazie all’acquisizione nel corso del tempo della tecnica, riesce comunque ad affermare il proprio potere, il dominio e la manipolazione sulla natura. Viene in questo modo esercitata una vera e propria violenza sulla natura.
Astuzia e progresso
Nel testo del terrore troviamo meccanica e metodo sperimentale, che perseguono lo stesso obiettivo: ottenere effetti estranei a quello che consideriamo il corso normale della natura.
Il termine stesso di meccanica nasconde un significato che attraversa tutta la storia del rapporto tra lo scienziato e la propria creatura: mechane, ossia astuzia. Perché è proprio con l’astuzia che Frankenstein tenta di aggirare il corso dei fenomeni naturali, ottenendone un’alterazione e finendo per pentirsene, sprofondando nel terrore e nel dolore.
Quello di Mary Shelley è un avvertimento nei confronti del progresso, non possiamo sorvolare sul contesto in cui la giovane donna scrive: i primi decenni dell’Ottocento vedono l’Inghilterra impegnata nelle proteste degli operai che si ribellano all’utilizzo delle macchine, alle quali, insieme ai padroni, viene attribuita la malignità. Inoltre, proprio in quegli anni fiorivano alcune teorie scientifiche circa la possibilità di riportare in vita i morti. Mary Shelley stessa nel dicembre del 1814 assistette alla conferenza di André-Jacques Garnerin su ellettricità, galvinismo, gas e fantasmagoria. L’orrore, in queste pagine, attraversa ogni ambito dell’esistenza umana, anche quello sociale e politico.
«Da una parte la natura può presentarsi a noi con un aspetto ostile, dal quale bisogna difendersi, e come un insieme di risorse necessarie alla vita, che occorre via via esplorare […] Ma è anche vero che lo sviluppo cieco della tecnica e dell’industrializzazione, punzecchiato di continuo dalla fame di profitto, alla fine può mettere a repentaglio il nostro rapporto con la natura, se non la natura stessa» (*)
Lo svelamento della natura
Come accennato esiste un atteggiamento orfico, la seconda modalità per disvelare i segreti insiti nella natura senza l’aiuto di strumenti tecnici, utilizzando le risorse del discorso filosofico e poetico o quelle dell’arte pittorica. Un cammino che porta a un’ascesa spirituale verso la saggezza e la conoscenza, ascoltare la Natura e trarne gli insegnamenti, è una rivelazione progressiva.
Entrambi gli atteggiamenti portano con sé delle conseguenze, il primo pecca di arroganza, il secondo di ingenuità, poiché potrebbe fornire una visione primitivista di ciò che la natura costituisce.
L’atteggiamento migliore, che porta con sé meno conseguenze, è quello in grado di padroneggiarli entrambi; sono due orientamenti necessari che non per forza si escludono a vicenda, ma che spesso si mescolano.
«La stessa persona può assumere simultaneamente o successivamente atteggiamenti diversi e a prima vista contraddittori nei confronti della natura. Mentre lo scienziato sta facendo un esperimento, il suo corpo percepisce comunque la terra, malgrado la rivoluzione copernicana, come un sostegno fisso e immobile […] Atteggiamento orfico e atteggiamento prometeico possono quindi succedersi, coesistere, e addirittura mischiarsi tra loro. Pur restando radicalmente e fondamentalmente contrapposti» (*)
È evidente che lo scienziato Victor Frankenstein non sia riuscito in questo intento.
* Nota
(P. Hadot, Il velo di Iside: storia dell’idea di natura, Einaudi, Torino, 2008, p. 96.)