Il giorno che mi fu regalato Quando gli elefanti piangono – pubblicato da Baldini&Castoldi nel 1996 – guardai la copertina del libro con sospetto. La foto del piccolo pachiderma e quel titolo piacione destarono in me più di un sospetto. Così lo misi da parte. Fu un errore a cui posi rimedio solo un paio d’anni più tardi.
Il libro di Jeffrey Masson e Susan McCarthy ha suscitato infiniti dibattiti nel mondo accademico. Quando lessi la fastidiosa e leziosa stroncatura di uno studioso, del quale oggi non ricordo il nome, mi convinsi a leggerlo.
Intanto va detto che è un libro ben scritto, piacevole, e già questo è un punto a favore. Uno dei meriti degli autori è senz’altro quello di avere adottato un linguaggio molto “visivo”. Il lettore avverte quasi la sensazione di assistere a un documentario e visto l’argomento trattato ciò non è affatto male.
Lo scopo degli autori è presto detto: attraverso una lunga serie di episodi, che hanno per protagonisti non solo elefanti ma anche orsi, delfini, pappagalli, si vuole dimostrare che gli animali sono capaci di dimostrare sentimenti come dolore, gioia, rabbia, paura, tristezza.
Quando gli elefanti piangono ha ricevuto l’endorsement di una celebrità come Jane Goodall. L’etologa e antropologa inglese, nota soprattutto per la sua quarantennale ricerca sulla vita sociale e familiare degli scimpanzé, ha scritto: «È un libro dotto, vivo, convincente».
Eppure molti scienziati sono cauti se non addirittura scettici di fronte ai racconti di animali affascinati dalla bellezza di un tramonto o che custodiscono per giorni la carcassa del proprio congiunto.
Nonostante il lavoro di Masson e McCarthy abbia ormai quasi un quarto di secolo, l’argomento è ancora in gran parte inesplorato. Almeno due ostacoli restano da superare: i sentimenti non sono misurabili in modo empirico e questo vale anche per gli uomini; inoltre, nonostante gli sforzi compiuti, continuiamo a utilizzare un metro umano.
Forse questo è il punto: anziché domandarci se gli elefanti piangono e per quale motivo lo fanno, dovremmo accettare che le espressioni emotive negli animali prendono altre strade, non per forza meno nobili delle nostre.
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