di Daniele Paganelli (Fondazione Lombardia per l’Ambiente)
e Agnese Marchini (Università di Pavia)
Come tutti, anche gli ecologi ai tempi del Coronavirus se ne stanno chiusi nelle loro case ad aspettare tempi migliori per tornare sul campo a studiare la natura. Questo però non impedisce loro di tenersi aggiornati sulle ultime pubblicazioni scientifiche, fare lezioni a distanza, ma anche guardare fuori dalla finestra continuando ad osservare l’ambiente che li circonda, sempre a debita distanza, purtroppo.
C’è chi sta facendo un tour ornitologico ogni giorno dal balcone di casa, osservando orde di codibugnoli, fringuelli, merli, tortore, aironi, barbagianni e civette di notte.
C’è chi censisce la flora di un minuscolo tratto di incolto tra casa e la fermata della metropolitana, sorprendendosi del fatto che quei 150 m2 ospitino almeno una ventina di specie vegetali, oltre a coleotteri e imenotteri a profusione.
Inoltre, c’è chi si esercita a interpretare i modelli statistici di crescita nel tempo delle popolazioni, utilizzando i dati di diffusione del SARS-CoV-2 aggiornati quotidianamente nel web.
E c’è chi crea questionari per esplorare il valore intrinseco di parchi urbani, laghi, fiumi, coste, montagne, o anche piccoli pezzetti di giardino, in termini di servizi ecosistemici fondamentali per il benessere psico-fisico. Questi sono solo alcuni esempi che amici e colleghi ci hanno raccontato recentemente.
Un’occasione unica
In effetti questo lockdown sta rappresentando un’occasione inedita e irripetibile (speriamo!) per testare in modo sperimentale nuovi aspetti di molte discipline. Tra cui: epidemiologia, economia, politica, psicologia, sociologia, pedagogia, informatica, ma anche inquinamento dell’atmosfera e delle acque, o conservazione della natura.
Il quadro di Biological Conservation e le nostre considerazioni
Proprio a questo proposito, è stato recentemente pubblicato un editoriale sulla rivista Biological Conservation che fotografa in modo chiaro ed esaustivo quello che sta succedendo al mondo della ricerca ecologica e della conservazione ambientale in questo periodo di pandemia.
L’editoriale offre molti spunti interessanti che proveremo a riassumere qui, integrandoli anche con nostre riflessioni personali sulle conseguenze di questa pandemia dal punto di vista della ricerca ecologica e dei suoi risvolti sulla conservazione della biodiversità e degli habitat naturali del nostro pianeta.
La chiusura degli atenei
Il primo punto di riflessione è legato all’attuale stato di chiusura degli Atenei. L’Università, come tale, è nata per fare ricerca, ma anche e, soprattutto, per formare nuove generazioni alla ricerca. E l’inaspettato dirottamento verso le modalità telematiche, di cui si aveva fino a poco tempo fa ben scarsa esperienza, non funziona altrettanto bene per tutte le discipline. E non si tratta solo di carenza di “contatto diretto” tra docenti e studenti. Per insegnare le Scienze Naturali, la didattica frontale è fortemente integrata con attività di campo e laboratorio, in cui è possibile esercitarsi nella misurazione delle variabili ambientali e biologiche, confrontarsi con le difficoltà tecniche, abituarsi a osservare, sviluppare un atteggiamento critico e creativo. Questa parte ovviamente è molto difficile, se non impossibile, da trasferire nella didattica telematica e, purtroppo, il lockdown è arrivato proprio nella stagione primaverile, quella in cui tipicamente queste attività sono più concentrate. Nonostante gli enormi sforzi affrontati dai docenti per ideare soluzioni alternative e dagli studenti per adattarvisi in poco tempo, occorre prendere atto della realtà: la qualità della formazione naturalistica accademica in questa fase è inevitabilmente peggiorata. E una generazione di studenti sta perdendo occasioni di apprendimento pratico, che non per tutti sarà possibile recuperare.
Il ruolo fondamentale delle figure precarie
Il mondo universitario però non è fatto solo di professori, ricercatori, e studenti ma ci sono anche svariate figure precarie a supporto della ricerca. Ovvero dottorandi, borsisti, e assegnisti di ricerca che nella vita universitaria rivestono un ruolo molto più rilevante di quanto ci si immagini. Sono questi soggetti, infatti, che mantengono le attività quotidiane dei laboratori, addestrano gli studenti alla realizzazione delle fasi sperimentali della loro tesi, eseguono le raccolte dati in campo, analizzano i dati e scrivono le proposte di progetto. La chiusura dei laboratori e l’impossibilità di realizzare i programmi di raccolta dati in campo limitano tutto il mondo della ricerca ambientale. Ma ancora di più queste figure precarie, che rischiano di non poter completare i loro programmi scientifici e le loro pubblicazioni. Soprattutto, rischiano di non avere più rinnovate le loro posizioni temporanee o di essere meno competitivi nei concorsi per posizioni stabili.
La quarantena della ricerca
L’improvvisa interruzione della ricerca in campo ambientale è il secondo punto critico evidenziato dall’editoriale. Molti servizi giornalistici ci suggeriscono che in questi giorni di lockdown, con cieli senza aerei e strade senza vetture, la natura si sta riappropriando di alcuni spazi. Le immagini di pinguini a passeggio per le strade deserte di Cape Town in Sudafrica, di cinghiali avvistati a Bergamo e di acque trasparenti nel Po e nella laguna di Venezia, sebbene fenomeni locali e non generalizzabili, ci incoraggiano a pensare che il cambiamento -e miglioramento- dello stato di qualità ambientale possa avvenire in tempi rapidi. Tuttavia, non abbiamo l’occasione di provarlo, proprio perché la ricerca ecologica è anch’essa in quarantena. E l’interruzione di monitoraggi, esperimenti e raccolte dati porterà a una irrimediabile perdita di informazioni. Si pensi alle ricerche ecologiche a lungo termine (LTER: Long Term Ecological Research). I dati collezionati in continuo nel corso di decenni, avranno ora un gap nella primavera del 2020, che introdurrà una fonte di incertezza ed errore nelle analisi dei fenomeni multiannuali. Ma anche nel breve termine: non si potranno misurare gli effetti di eventuali interventi di risanamento, non si potrà stimare la risposta di una popolazione in natura, proprio nella stagione della riattivazione biologica, e così via. Alcune di queste informazioni, purtroppo, sono essenziali per comprendere gli effetti dell’impatto antropico sull’ambiente e per pianificare una corretta gestione delle risorse naturali. Quali saranno le conseguenze di questo inaspettato blocco della ricerca sulla tutela dell’ambiente e della biodiversità? Difficile da immaginare.
È mancato l’approccio preventivo
Da decenni la comunità scientifica ha messo in guardia dai cambiamenti climatici, dalla crisi idrica, nonché dall’insorgenza di nuove patologie infettive. Ma l’approccio preventivo non è mai entrato nell’agenda politica in modo veramente incisivo. Incapaci di accettare cambiamenti radicali del nostro stile di vita, abbiamo delegato la soluzione dei problemi alle generazioni future.
SARS-CoV-2 sta però cambiando all’improvviso le regole del gioco. Le nostre vite tutto ad un tratto sono rivoluzionate e ora ci stiamo preparando a riorganizzare la società in modo nuovo e inedito, sebbene sia doloroso ammettere che questo stimolo sia arrivato solo a fronte di molte vite umane spezzate. D’altra parte la speranza è che questa esperienza sia utile a riprogrammare le priorità politiche, rinforzare le responsabilità individuali nei confronti dell’impatto che abbiamo sull’ambiente e magari, perché no, a non sottovalutare il lavoro degli scienziati, ecologi inclusi.
Bibliografia
Corlett et al., 2020. Impacts of the coronavirus pandemic on biodiversity conservation. Biological Conservation 246: 1-4
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