Quanto è accaduto e continua ad accadere all’ Ilva di Taranto è il risultato di una politica dissennata e compromessa che affonda le sue radici molto in profondità. Sarebbe disperato il tentativo di trovare un unico responsabile per i tanti disastri che si sono consumati in questo angolo di Italia. Troppi, amministratori e dirigenti politici nazionali e locali, hanno concorso alla triste vicenda di un’azienda prima privata, poi pubblica e infine di nuovo privata, ma sempre avvelenata da nepotismi, inefficienze, inquinamento e usura degli impianti.
In questa vicenda si specchia la povertà di pensiero e la scarsa visione dei governi che si sono succeduti. Ci sarebbe stato tutto il tempo necessario – l’ Ilva è stata investita dalla prima crisi negli anni Ottanta, mentre gli allarmi per l’ambiente e la salute pubblica risalgono a quasi mezzo secolo fa – per pianificare strategie di lungo termine volte a favorire la chiusura di un’impresa altamente inquinante e incentivare la nascita di altrettante attività in linea con le nuove esigenze economiche, sociali e ambientali. Invece una politica malata di clientelismo e immoralità, distante anni luce dagli interessi della gente, ha scelto di tenere in piedi soluzioni senza sviluppo, perdendo altre opportunità.
Adesso possiamo continuare a discutere se è giusto che la difesa del posto di lavoro venga prima della salute, della qualità della vita e dell’ambiente. Forse, perfino del buon senso. Ma la triste, sconsolante verità è che era già stato tutto previsto, fin dal principio. Il 10 aprile 1965, giorno dell’inaugurazione ufficiale del Centro siderurgico Iri “Salvino Sernesi” di Taranto, diventato Ilva dopo la privatizzazione, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat parlò di un “grande stabilimento industriale” e di uno Stato che “ha seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla”. Esattamente sette anni dopo, nell’aprile del 1972, Antonio Cederna, il più arguto fustigatore delle malefatte perpetrate nei confronti dell’ambiente italiano, pubblicò due articoli sul Corriere della Sera. Nel primo scrisse: «l’Italsider tende a imporre il proprio interesse aziendale, considerando la città e i suoi duecentomila abitanti come un semplice serbatoio di mano d’opera, trascurando ogni altra esigenza dello sviluppo civile e del progresso sociale». L’articolo successivo fu intitolato: “Taranto strangolata dal boom”. Ecco un passaggio: «un’impresa a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Si riferiva in particolare al quartiere Tamburi, che puntualmente torna al centro delle cronache per l’alta incidenza di tumori.
Sono trascorsi decenni e siamo ancora prigionieri di un’alternativa senza senso, primitiva e perfino grottesca, se non fosse per le drammatiche conseguenze che comporta: o Ilva o fame.
La lunga sequenza di piani di risanamento, decreti, commissariamenti e subcommissariamenti degli ultimi anni non ha invertito il declino dell’azienda, la cui produttività continua a scivolare in basso, né risolto i problemi ambientali. Ormai è diventato perfino seccante seguire la vicenda, tanto che il Paese sembra avere scelto di accompagnare distrattamente l’agonia dell’ Ilva.
Ora siamo all’ennesimo bivio: Am InvestCo, la newco controllata dal colosso mondiale dell’acciaio ArcelorMittal e dal gruppo Marcegaglia che si è aggiudicata la gara bandita dal governo nel 2017, dovrebbe rilevare gli impianti entro il primo luglio, ma sul tavolo ci sono numerosi nodi da sciogliere, tra cui 3800 esuberi. Intanto prende ipotesi l’idea di una nuova proroga. Il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio ha avviato un giro di consultazioni, dopo avere precisato che sulla vicenda decide lui e non Grillo. Il fondatore del M5S giorni fa ha auspicato una riconversione ecologica del sito sull’esempio di quanto fatto in Germania nel bacino della Ruhr. Sarà una battaglia avvelenata, come tutto del resto attorno all’ Ilva.
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