So che la Giornata delle Zone Umide è stata celebrata in tutto il mondo il 2 febbraio, è stato ricordato anche da noi.
Se oggi torno a parlare di zone umide però c’è un buon motivo. Almeno per me. Spero anche per molti di voi.
La mia formazione di giovane ecologista è strettamente associata alla scoperta di questo affascinante habitat. Avevo poco più di vent’anni e alcuni amici appassionati di natura e fotografia mi portarono in gita fra le risaie del vercellese a “caccia” di aironi e garzette. Il momento cruciale fu l’avvistamento di uno sparuto gruppo di cavalieri d’Italia che sostavano nelle vasche per lo stoccaggio dei liquami di una porcilaia.
L’atmosfera non era proprio simile a quella del Coto Doñana, della Camargue o del Delta del Po. Eppure tutto è partito da lì, da quella pozza. All’epoca per avvistare quei graziosi uccelli, che sono stati un simbolo della conservazione in Italia, occorrevano lunghi appostamenti nelle lagune della Toscana. A me si palesarono alla prima uscita.
E scoccò la scintilla. Da allora, per anni, le gite del fine settimana e, talvolta, le vacanze sono diventate l’occasione per scoprire stagni, paludi, laghi, estuari: il Pian di Spagna, le valli del Mincio, la laguna di Marano, Punte Alberete, Bolgheri, Burano, Orbetello, la laguna di Sabaudia, il lago di Barrea, l’oasi di Castelvolturno, Vendicari, le saline di Trapani, lo stagno di Molentargiurs. E poi i delta dei grandi fiumi europei, Danubio, Guadalquivir, Ebro, Rodano e via discorrendo.
Il resto… Be’ il resto lo racconto da anni su La Rivista della Natura e da un po’ di tempo anche su questo quotidiano online. In genere non parlo di uccelli, né degli ambienti naturali che li ospitano, ma piuttosto di cosa occorre fare e soprattutto cosa non dovremmo fare per proteggerli.
Spesso mi domando quale sarebbe stato il corso della mia vita se in un caldo pomeriggio di primavera non mi fossi imbattuto in quei cavalieri con le lunghe zampette rosse sprofondate fra acque maleodoranti.
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