Ogni anno, da settembre ad aprile, Taiji è sotto i riflettori a causa della caccia ai delfini praticata dai pescatori e dagli abitanti della zona.
Anche quest’anno, il primo settembre, ha avuto inizio la mattanza. Questa pratica è stata inaugurata nel 1969, in seguito alla prima richiesta da parte del museo dei mammiferi marini a Taiji, di un delfino da tenere in cattività. Da allora, si sono sommate altre motivazioni a sostegno di questa pratica brutale, oltre all’industria dei parchi divertimento e acquari e il consumo di carne di delfino da parte di locali.
Sebbene solo una piccola percentuale della popolazione consumi carne di delfino, durante la stagione di caccia, almeno il 50% degli animali catturati, è destinato all’alimentazione. I consumatori non sono necessariamente al corrente dei rischi, anche seri, legati all’alta concentrazione di mercurio e metil-mercurio bio-accumulato, tipica dei predatori all’apice della rete alimentare come i delfini, fino a 2000 volte maggiore dei livelli considerati sicuri.
In aggiunta, la maggior parte della carne di delfino viene etichettata e venduta come carne di balena, considerata un alimento pregiato, ma la cui quantità si è ridotta a seguito delle restrizioni sulla caccia di questi animali.
I maggiori proventi della caccia provengono però dalla vendita di delfini catturati e ammaestrati per i parchi divertimenti. Il guadagno ottenuto per la vendita di un delfino può ammontare a circa 250.000 $, appare quindi difficile pensare ad una autoregolamentazione e limitazione volontaria di una simile fonte di profitto.
Ciò che non viene dichiarato è però l’insieme di problematiche cliniche ed etiche correlate alla perdita del benessere dell’animale. Infatti, vi è poca conoscenza delle condizioni e del trattamento cui i delfini vengono sottoposti.
La cattività prevede vere e proprie sevizie: in primo luogo vi è la selezione, che avviene in seguito all’ osservazione prolungata delle reazioni degli animali dopo clausura forzata nel “Covo” di Taiji; in secondo luogo vi è il digiuno protratto che spinge e costringe l’animale a svolgere, attraverso estenuanti allenamenti, determinati “giochetti” in cambio di un premio in cibo. Senza dimenticare le fasi di trasporto verso l’acquario, durante le quali l’animale è costretto in una cassa di legno con pochissima acqua ed aria, appena sufficiente per sopravvivere. Si pensi che normalmente, per ogni delfino comprato, ne vengano inviati almeno sei a causa dell’alta mortalità durante le trasferte.
Infine, è bene sapere cosa avviene nell’ultima fase, cioè all’arrivo in acquario. Paradossalmente, di tutte le sofferenze può essere considerata la più brutale: i mammiferi marini odontoceti (delfini), comunicando tramite eco localizzazione, cioè mediante un sistema d’invio e ricezione di suoni ad alta frequenza, una volta rinchiusi nella vasca, si trovano circondati da un muro di suoni causato dall’eco generato dai bordi. Questo inverosimile eccesso di suoni, rispetto all’habitat naturale, comporta per il delfino stress difficili da quantizzare. Basti dire che, su cadaveri di delfini che hanno eseguito performance per qualche tempo, si rilevano profonde ulcere gastriche, verosimilmente effetto dello squilibrio tra comportamenti naturali e comportamenti forzati.
Numerosi gruppi di protezione animali, tra cui Sea Shepherd, si muovono da anni promuovendo iniziative di protesta contro la pratica attuata a Taiji e contro la cattività in generale. Purtroppo pratiche simili a quelli descritte sono presenti anche nelle Isole Faroe, in Russia e in Perù.
Un’ultima riflessione: poiché l’industria della cattività è totalmente dipendente dalla richiesta dei visitatori dei parchi, sarebbe fondamentale che le persone venissero a conoscenza del trattamento riservato agli animali di cui loro ammirano la bravura, l’obbedienza, la precisione. Animali intelligenti, che sembrano perfino sorridere. Quando si sa che il “sorriso” del delfino è in realtà solo una caratteristica anatomica, un disegno della natura che non deve distogliere dalla scioccante realtà.
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