Come abbiano fatto a resistere tanto tempo senza bere e mangiare resta un mistero. Tuttavia almeno quattro persone sono state estratte vive dalle macerie dopo otto giorni dal grave terremoto che ha sconvolto il Nepal e che ha provocato più di settemila morti. Un sopravvissuto avrebbe 105 anni. I soccorritori e gli scienziati sono convinti che non sarà possibile recuperare altri supersiti, tuttavia storia e statistiche dicono che non c’è un vero limite alla sopravvivenza umana. Episodi accaduti in passato lo dimostrano. In ambito geologico il caso più eclatante riguarda un terremoto avvenuto a Lisbona il 1 novembre del 1755. Le cronache asseriscono che siano state recuperate vive dieci persone dopo quaranta giorni dal sisma. Evidentemente i dati sono stati ritoccati o i malcapitati avranno avuto modo di nutrirsi, seppur in condizioni estreme. Certi sono, però, altri fatti a noi più vicini.
Il 1 dicembre 1980 in seguito al terremoto in Irpinia viene estratto vivo dalle macerie un centenario, dopo otto giorni passati sommerso dai detriti. In Corea del sud, il 15 luglio 1995, una ragazza rivede la luce del sole dopo diciassette giorni trascorsi intrappolata fra i resti di un grosso palazzo crollato su se stesso. L’8 gennaio 2004, in Iran, viene estratto vivo un uomo: il sisma è avvenuto tredici giorni prima e ha provocato 40mila vittime. C’è anche il terrorismo. Nel 2001, in seguito all’attentato alle Torri Gemelle, vengono salvati cinque pompieri, cinquanta ore dopo la tragedia. Ma i record di sopravvivenza umani non riguardano solo la sismologia; casi in cui degli uomini si sono trovati liberi di respirare sotto un cielo splendente, ma in condizioni inconciliabili con la fisiologia umana.
E’ il 13 settembre 1972 quando un aereo sorvola le Ande con a bordo 45 persone. Per la scarsa visibilità il mezzo centra le rocce della Cordigliera e si spezza in due tronconi, a quasi quattromila metri di quota. Sopravvivono per settanta giorni solo sedici persone, cibandosi dei corpi senza vita dei compagni. Simile il destino di un gruppo di naufraghi andati alla deriva al largo delle coste del Senegal il 2 luglio 1816: il comandante si mette in salvo con altri “altolocati” servendosi di alcune scialuppe e abbandona tutti gli altri, 152 persone, a bordo di una rudimentale zattera lunga venti metri e larga dieci. Venti muoiono subito, annegati o spinti in mare. Altri se ne vanno poco dopo per zuffe e litigi. Alla fine ne rimangono venticinque che si danno al cannibalismo. I superstiti vengono recuperati dopo tredici giorni di mare aperto.
Anche il noto esploratore Ambrogio Fogar patì una situazione analoga nel 1978. Con un compagno di ventura, il giornalista Mauro Mancini, si trova al largo delle isole Falkland quando viene attaccato da un gruppo di orche. La nave Surprise affonda e i due sono costretti ad arrangiarsi con una zattera. Li aspettano settantaquattro giorni di agonia. Resistono bevendo acqua e nutrendosi con telline e un paio di cormorani catturati fortuitamente. Li recuperano che hanno perso quaranta chili ciascuno. Ma ce la farà solo Fogar. Infine la storia di due neozelandesi che il 15 maggio 1992 perdono l’orientamento nei pressi delle isole Samoa, in pieno Pacifico. Girano senza meta per 1500 chilometri su una barchetta lunga appena quattro metri. Rivedono la terraferma in fin di vita sei mesi dopo il naufragio.
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