Giorni fa, durante una conferenza rivolta a un pubblico di giornalisti, Natalia Aspesi, nota firma de La Repubblica, ha pronunciato una frase che mi ha divertito: «Piuttosto che scrivere la parola virale mi farei tagliare le mani».
Apparentemente potrebbe suonare come il motto di spirito di una elitaria signora ottantenne. Invece c’è di più. L’affermazione offre l’occasione di riflettere sull’ecologia del linguaggio e dell’informazione.
Oggi tutto tende a diventare virale: un video, una campagna pubblicitaria, un post. Molti di noi scrivono o filmano qualcosa con la speranza che diventi, appunto, virale.
Secondo quanto riportato dall’Accademia della Crusca, l’aggettivo virale viene introdotto nel 1961 come termine specialistico della medicina e della biologia con il significato di ‘relativo a virus; causato da un virus’, per cui abbiamo espressioni come infezione virale, carica virale e così via. All’incirca dal 2005 in poi si iniziano a trovare attestazioni di un impiego di virale in un senso nuovo, riferendosi a un’informazione che si propaga velocemente soprattutto tramite i nuovi media.
Cosa diventa virale? Soprattutto cadute rocambolesche, video scollacciati, pezzi musicali orribili e un vasto campionario di volgarità. Sarà destino, ma quel non so che di patologico associato al suo impiego originale continua a inseguire questo aggettivo. Che, non ultimo, ha pure un suono assai poco gradevole.
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