A 5.364 metri di quota, l’Everest Base Camp si estende con la sua moltitudine di tende colorate sul ghiacciaio Khumbu da cui si gode della spettacolare vista delle montagne più alte del pianeta. Dal piccolo aeroporto di Tenzing-Hillary, anche conosciuto come aeroporto di Lukla (2.846m), sono necessari circa nove giorni di cammino per raggiungere il Campo Base, passando per piccoli villaggi rurali in pietra, vertiginosi ponti tibetani e dedicando al proprio corpo il giusto tempo per acclimatarsi.
La porta d’ingresso all’Himalaya
Il famoso numero 24 sulla pista dell’aeroporto di Tenzing-Hillary segna il vero inizio del trekking nella valle del Khumbu. Con una pista lunga appena 530 metri a strapiombo sulla vallata, solo piccoli velivoli possono raggiunge questo aeroporto, tristemente noto per essere uno dei più pericolosi al mondo per via delle difficili condizioni climatiche nell’Himalaya.
Ritirati i bagagli ridotti al minimo per avere meno peso possibile sulle spalle ci incamminiamo insieme alle guide nepalesi, al nostro gruppo di escursionisti, e ai valorosi e tenaci porter di cui perdiamo subito le tracce vista la loro insuperabile prestanza fisica. La prima tappa verso il villaggio di Phakding, in una mattina di aprile, si conclude senza troppa fatica sotto un sole caldo intervallato da qualche nube sparsa. Nonostante questo regalo, tutti sappiamo che le previsioni meteo non promettono nulla di buono per i giorni a venire.
Pioggia, freddo e neve
Il clima non aiuta nel Parco Nazionale di Sagarmatha che in lingua locale significa “Dio del cielo” ed è anche il nome nepalese del Monte Everest. Le notti di inizio maggio si fanno sempre più fredde nelle tea house in pietra e legno le cui sale da pranzo, scaldate da stufe con sterco di yak, ospitano escursionisti provenienti da ogni parte del globo. «Non dovrebbe essere così in questo periodo dell’anno» ci spiegano le guide, «il clima sta cambiando rapidamente». Aprile e maggio sono sempre stati una finestra perfetta per raggiungere il Campo Base, così come per coloro che tentano la scalata all’Everest, ma questa volta sembra che il clima non sia affatto dalla nostra parte: pioggia e neve ci accompagnano durante le lunghe giornate buttando a terra lo spirito del gruppo che procede silenzioso e meditativo. «Chissà se riusciremo a vedere qualche picco» mi domando tra me e me entrando in quella che chiamo “modalità di sopravvivenza”. Troviamo conforto e la forza necessaria nelle sagge parole della guida a capo della spedizione: «Sono fiducioso che andrà meglio, lo sento, devo essere positivo». Sono incredibili lo spirito e l’accettazione delle condizioni più avverse che caratterizzano le persone del luogo, probabilmente qualcosa che dovremmo imparare e mettere in pratica noi stessi.
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