Continua il racconto del trekking alle pendici dell’Everest (leggi qui la prima parte).
Il trekking prosegue come da programma. I sentieri sono ben tenuti e vige la regola di dare la precedenza a yak e asini che, in file ordinate, scendono a valle oppure si dirigono a monte insieme alla loro guida. Sostiamo un paio di notti a Namche Bazaar, un villaggio arroccato a ferro di cavallo a 3.440 metri da cui, per qualche breve istante, godiamo delle prime viste spettacolari delle vette dell’Himalaya. Raggiungiamo poi Tengboche e successivamente Dingboche. Qui, a 4.400 metri di quota accade qualcosa di inaspettato: il vento cessa e le nuvole lasciano spazio ad un cielo stellato che illumina l’imponente Monte Ama Dablam. Ci sentiamo minuscoli di fronte a cime che quasi toccano i 7.000 metri. Ci sentiamo vivi e percepiamo un forte senso di gratitudine per essere ai piedi delle vette più alte del mondo. Nell’aria si respirano eccitazione e felicità che esternalizziamo con ampi sorrisi a cui fanno seguito riflessioni personali e contemplazione. Questo incredibile dono si ripete anche nel nostro giorno di acclimatamento durante il quale ammiriamo i Monti Cholatse, Makalu e Baruntse da un punto panoramico a 4.700 metri. Rientrati alla tea house abbiamo la fortuna di conoscere e parlare con il sessantaquattrenne lettone Juris Ulmanis. Ci racconta di essere appena sceso dal Campo 3 per motivi di salute e di dover trascorrere a Dingboche le prossime settimane per tentare nuovamente la vetta dell’Everest a metà maggio. «È orribile lassù» dice Juris senza troppi giri di parole, riferendosi al freddo e al vento gelido che hanno momentaneamente sfigurato il suo volto. Eppure, il suo obiettivo sembra non curarsi della sofferenza fisica: vuole portare la bandiera dell’Ucraina sulla cima dell’Everest accompagnato dalla sua guida Chengha Tsering Sherpa che lascerà una statuetta del fondatore del buddismo tibetano Guru Rinpoche come parte della sua Campagna per la Pace e l’Umanità. «Spero che il tuo sogno possa diventare realtà» dico a Juris stringendogli la mano e rimettendomi in cammino insieme al gruppo verso l’ultima parte della nostra ascesa.
Alla base dell’Everest
Neve e vento tornano ad accompagnarci incessanti nei giorni successi. Visitiamo il memorial ai caduti del Monte Everest sotto una fitta coltre di neve. Riconosciamo i nomi di Rob Hall e Scott Fisher che persero la vita durante la tragica spedizione dell’11 maggio del 1996.
La gelida notte a Lobuche a 4.900 metri è l’ultima prima del Campo Base. Cerchiamo di mantenerci idratati per via dell’altitudine e al caldo nel nostro sacco a pelo invernale con tanto di giacca e cappellino e disponendo attorno a noi ciò che indosseremo prima dell’alba per evitare che i vestiti si trasformino in blocchi di ghiaccio. Niente da fare invece per le sacche d’acqua che congelano durante la notte. Alle 5:00 di mattina la nostra guida ci sveglia bussando vigorosamente alla porta della nostra piccola stanza. Giusto il tempo per la colazione e in mezz’ora ci troviamo a camminare al buio illuminando il sentiero con le torce frontali. Il freddo supera ogni strato termico che indossiamo, dobbiamo proseguire se vogliamo scaldarci. Questa volta la fortuna non ci abbandona: il cielo è limpido e non c’è un filo di vento. Finalmente i primi raggi di sole illuminano la zona in ombra e iniziamo a sentire il calore sui nostri volti. Passiamo da Gorakshep e proseguiamo verso il ghiacciaio Khumbu, impazienti di raggiungere il Campo Base. Ed ecco che dal sentiero stretto e serpeggiante avvistiamo per la prima volta la vetta dell’Everest dalla tipica forma piramidale incorniciata dai Monti Lhotse e Nuptse, e in lontananza distinguiamo l’immensa distesa colorata di tende. Continuiamo sulla morena glaciale fino alla grande roccia su cui compare la tanto sognata scritta rossa “Everest Base Camp 5364m”. Esultiamo entusiasti, ci abbracciamo e complimentiamo. L’emozione è incredibilmente forte e la visione della valle ad anfiteatro è suggestiva. Nessuno è rimasto indietro nel gruppo, il che rende le guide estremamente orgogliose del proprio operato.
Il viaggio di ritorno
Tornati a Gorakshep, è possibile salire sulla cima del Monte Kala Patthar da cui si gode di una vista magnifica dell’Everest e dell’intero anfiteatro da una posizione privilegiata a 5.644 metri.
Gli imprevisti ad alta quota come la malattia da altitudine non sono rari, ma i dottori presso le tea house sono preparati ad ogni situazione. Un’iniezione al braccio e alcune compresse mi bastano per curare sintomi quali cefalea acuta e nausea, e prevenire il pericoloso edema cerebrale.
Il buon tempo continua durante il viaggio di ritorno che si conclude in soli tre giorni. Procediamo ad una velocità sostenuta camminando per circa 8/9 ore al giorno. L’euforia cede il posto alla stanchezza e un acquazzone ci coglie di sorpresa prima dell’arrivo a Lukla dove trascorriamo l’ultima notte prima del volo. Di nuovo a bordo del piccolo aereo ad elica decolliamo dalla breve pista lasciandoci alle spalle il numero 24 e portando con noi un bagaglio di ricordi e insegnamenti che custodiremo gelosamente e di cui faremo tesoro.
Il 17 maggio 2023 Juris Ulmanis e Chengha Tsering Sherpa raggiungono il tetto del mondo portando la bandiera dell’Ucraina e la statua di Guru Rinpoche a 8.848 metri. Guardo i loro scatti sulla vetta e i volti consumati dalle intemperie brillare di gioia. Sento la loro vittoria e il loro messaggio verso l’umanità come una conquista di tutti.
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