Nei giorni scorsi il Comune di Milano ha dato una nuova spallata ai limiti delle politiche pubbliche che – sebbene promosse col nobile scopo di ripulire l’aria da sostanze tossiche – nella realtà dei fatti sembrano favorire l’industria automobilistica più che la salute dei cittadini. Tra i mezzi interdetti alla circolazione, infatti, per alcuni giorni sono stati inclusi i diesel euro 4 e pure quelli dotati di filtro antiparticolato, fino a poco tempo fa venduto come l’ennesima soluzione al problema dell’inquinamento atmosferico.
Sarebbe davvero interessante conoscere i dai relativi alla vendita di automobili negli ultimi anni epurati però dagli acquisiti compiuti per coercizione e non solo per scelta.
Siamo spinti a credere che l’innovazione tecnologica applicata all’industria sia un passo in avanti compiuto sempre e comunque per il bene della collettività. In materia di motori vi sono diversi casi che sembrano dimostrare altro.
Negli anni Ottanta del secolo passato fu considerato necessario abbandonare la benzina super al piombo, per sostituirla con un nuovo carburante privo di questo metallo tossico. Col tempo si è compreso che quella benzina è “verde” di nome, ma non di fatto. Meno tossica della vecchia, ma non per questo innocua. Le polveri fini emesse dalla combustione dei motori a scoppio hanno continuato a contribuire in modo significativo allo smog e a mietere vittime. Per di più si è scoperto che gli additivi antidetonanti usati al posto del piombo sono a loro volta nocivi, anche se in parte trattenuti dai catalizzatori delle marmitte. Tuttavia quel “verde” ha suggerito per anni l’illusione di un’innovazione finalmente amica dell’ambiente e della vita.
Sulla bontà del Fap, filtro antiparticolato applicato ai motori a gasolio, sono cominciati a circolare dubbi nel momento stesso in cui i costruttori di automobili hanno generato fra i consumatori l’abbaglio di poter acquistare finalmente un diesel pulito.
Ci sarebbe il metano. Propugnato come toccasana, anch’esso è finito sul banco degli imputati. Spiegano gli esperti che l’uso di questo carburante riduce di circa il 20 per cento la Co2 prodotta rispetto a un motore alimentato a benzina, il problema però sta nelle perdite accidentali durante le operazioni di estrazione e trasporto. Peggio ancora il biometano, ottenuto con biomasse vegetali. Benché presentato come una fonte rinnovabile, crea più problemi di quanti ne risolve. A parte il fatto che coltivare consuma energia, si apre anche un problema etico: in un mondo ancora affamato e sovrappopolato è immorale utilizzare terra, acqua e altre risorse per coltivare combustibile. Tanto più che i terreni necessari spesso vengono cercati proprio in quelle nazioni che non riescono a garantire cibo sufficiente ai propri cittadini.
L’ultima frontiera, quella su cui sta investendo il sistema industriale con tutta la sua corte di sostenitori più o meno consapevoli, è rappresentata dai veicoli elettrici, che consentirebbero di spazzare via tutti i problemi causati dai combustibili fossili. Ora, ammetto di essere ignorante in materia, ma vorrei rivolgere una domanda ai fautori di tale soluzione: potreste spiegare in maniera semplice e chiara come pensate di generare tutta quell’energia in più che si renderà necessaria per far marciare un parco auto elettrico simile per dimensioni a quello attuale?
Anzi, diamo pure per scontato che il numero di mezzi in circolazione sarà ancora più ampio, perché tutto sommato questo è l’obiettivo vero: continuare a vendere automobili.
Allora s’impone un altro quesito: i problemi creati dall’abuso di una tecnologia possono sempre e comunque essere risolti con l’introduzione di un’altra tecnologia?
Nonostante le innumerevoli criticità emerse nel corso dei decenni e a dispetto di chi da tempo ne intravedeva il tramonto ineluttabile, questo idolo della modernità sembra destinato a sopravvivere ancora a lungo, come il più indistruttibile e dispotico dei feticci mai generato dall’uomo. Del resto basta osservare la pubblicità: una volta si faceva leva sulla velocità, oggi sui comfort e le prestazioni “verdi”. Ma in fondo, ai giorni nostri come agli inizi del Novecento, l’automobile resta un segno visibile della propria condizione economica e sociale. E nessuno di noi vuole apparire sfigato.
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