Proprio sul finire della XVIII Legislatura, con l’approvazione da parte delle commissioni Ambiente e Agricoltura della Camera, il Parlamento ha licenziato il nuovo schema di decreto legislativo recante disposizioni concernenti la revisione e l’armonizzazione della normativa nazionale in materia di foreste e filiere forestali, ovvero quello che è stato più semplicemente definito come il Nuovo Codice Forestale Nazionale.
Adeguamento necessario
È indubbio che servisse un adeguamento delle normative in materia forestale, soprattutto per gestire un patrimonio in costante crescita da anni, con i boschi che oggi coprono quasi un terzo della superficie nazionale. Tuttavia tale incremento delle aree forestali non è il risultato di un’azione virtuosa, ma è per lo più l’effetto del progressivo abbandono avvenuto negli ultimi decenni di aree collinari e montane, un tempo coltivate o pascolate. Pertanto nella maggior parte dei casi non si tratta di boschi maturi e di cedui o fustaie ben tenute, frutto di assennate piantagioni o di un politica di gestione della foresta naturale che ne favorisca l’equilibrato sviluppo, ma di boscaglie spontanee con notevoli intrusioni di specie alloctone. Va infatti ricordato che la gran parte dei boschi italiani, soprattutto di quelli più pregiati, è il risultato di una secolare e sapiente gestione da parte dell’uomo, risalente in alcuni casi addirittura al Medioevo. E che le poche foreste originarie, lasciate appositamente da secoli alla completa evoluzione naturale, come ad esempio la famosa Riserva Integrale di Sasso Fratino nel Parco delle Foreste Casentinesi, sono comunque “tenute d’occhio” da soggetti gestori e non semplicemente abbandonate a sé stesse.
I paradossi dell’Italia
Inoltre l’Italia soffre di un altro paradosso (uno dei tanti del nostro Paese): che pur avendo un alto consumo di materiale legnoso, sia per scopo industriale sia per scopo energetico, utilizza solo una piccola parte della risorsa legnosa disponibile nei propri boschi, ricorrendo per il resto all’importazione del prodotto anche da Paesi tropicali.
Quindi la materia richiedeva un intervento del Legislatore, che tra l’altro potesse rimettere in moto un settore economico non secondario, come appunto quello forestale, da tempo in crisi. E in tal senso sono giunte le convinte approvazioni al disegno di legge da parte di quasi tutti gli operatori economici ed i soggetti professionali del settore, a cominciare dalle dichiarazioni di Andrea Sisti, presidente del Consiglio dell’Ordine Nazionale dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali – CONAF.
Cosa cambierà
In particolare convince gli operatori l’impianto generale della legge, basata sulla “gestione attiva della risorsa forestale secondo i principi della sostenibilità ambientale”. Ovvero “l’insieme delle azioni silvocolturali volte a valorizzare le molteplicità delle funzioni del bosco, a garantire la produzione sostenibile di beni e servi ecosistemici”. Le commissioni hanno inoltre stabilito che il pagamento dei servizi ecosistemici (es. consolidamento idrogeologico, produzione di ossigeno, intrappolamento di CO2, ecc.) generati dalle attività di gestione forestale sostenibile e dall’assunzione di specifici impegni silvoambientali non sarà più facoltativo ma obbligatorio.
Non è però ancora chiaro come questo meccanismo, in pratica, dovrà avvenire e questo è un primo interrogativo non da poco.
Importante anche il passaggio sulla multifunzionalità imprenditoriale e sulla cooperazione, dove vengono affrontati diversi aspetti legati al riconoscimento degli operatori forestali che potranno effettuare i lavori nei boschi. Rilevanti poi una serie di modifiche che toccano aspetti legati ai fabbricati rurali in stato di abbandono ed al recupero produttivo delle proprietà fondiarie frammentate e dei terreni incolti, silenti o abbandonati. Una nuova norma promuove infine la filiera produttiva locale, favorendo le imprese aventi centro aziendale entro un raggio di 70 km dalla superficie forestale oggetto di concessione.
L’economia della Natura
Insomma, anche se si parla molto di funzione ecosistemica delle foreste italiane, il taglio che emerge è in prevalenza di tipo economico, seppure in nome di una non troppo chiara visione di “green economy” e con nobili cenni su un’economia “sostenibile e virtuosa”.
Quasi del tutto assenti invece i riferimenti ai valori non monetizzabili dei boschi, al loro ruolo di sostegno indispensabile alla biodiversità floro-faunistica ed all’importanza intrinseca del bosco stesso, come luogo ad esempio generatore di bellezza e armonia.
Si parla di valenza economica e socio-culturale ma alla fine l’attenzione è rivolta, in maniera palese, quasi esclusivamente solo alla prima. E se, come detto all’inizio, è importante non lasciare i boschi abbandonati a sé stessi, sarebbe anche importante riconoscere almeno pari dignità tra le componenti naturalistiche-estetico-paesaggistiche e quelle economiche. E quindi prevedere conseguenti indirizzi gestionali.
E invece emerge ancora una volta la visione, sostenuta anche da un certo ambientalismo degli anni passati e da una parte importante del mondo accademico odierno, secondo la quale la Natura (in questo caso i boschi) è importante solo perché ha un valore economico, ovvero solo perché “serve”. Di questo passo manterremo gli alberi solo perché generano legno e producono ossigeno. Quando troveremo altri sistemi per fare ciò potremo anche eliminarli. E così tutti i fiori, gli animali, ecc.
Un approccio forse moderno e in parte come detto anche motivato, ma che nel complesso risulta incompleto e impoverente sotto tanti punti di vista e che, pur con tutti i distinguo, ancora una volta non ci convince.
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