Gli agricoltori dello Swaziland difficilmente dimenticheranno il 2016, l’anno della siccità più grave dell’ultimo trentennio. Ai bordi delle strade capitava di incontrare bestiame morto di sete e fame e quasi nessuno aveva raccolto nulla dai campi di mais e fagioli. La strada tra Mbabane, la capitale dello Swaziland, e Johannesburg traversava una distesa di centinaia di ettari di mais ingiallito. Sapevo, però, che apparteneva a una grossa ditta di mangimi per bovini e, che nonostante le ingenti perdite economiche, i proprietari non rischiavano di rimanere senza nulla da mangiare. Ma come avrebbero fatto le decine di migliaia di famiglie di piccoli produttori agricoli? Certo non acquistando il cibo di cui avevano bisogno. Il prezzo del mais era aumentato del 60% e molti avevano perso il lavoro stagionale nelle piantagioni di canna da zucchero, anch’esse danneggiate dalla siccità. Alcuni avevano ripetuto la semina dei fagioli per due o tre volte, nella speranza che la stagione delle piogge iniziasse in ritardo. Ma purtroppo quell’anno le piogge non arrivarono mai e la situazione appariva disperata.
Le conoscenze tradizionali hanno permesso di evitare il peggio
La soluzione, anche se a prezzo di enormi rinunce, gli agricoltori Swazi la trovarono grazie alla loro conoscenza della biodiversità locale. L’amaranto (Amaranthus spp.), la molokhia (Corchorus olitorius), alcune specie di Aloe, Bidens pilosa, Momordica balsamina e altre specie erbacee e alcuni frutti selvatici sono diventate la base dell’alimentazione durante i periodi più difficili. Queste piante erbacee e arbustive resistono bene ai periodi siccitosi e sono particolarmente ricche di ferro, calcio, beta-caroteni, acido folico e di altri importanti nutrienti. Ma non era certo la prima volta che le specie commestibili spontanee si erano trasformate nella soluzione alla scarsità di cibo. Ed è una fortuna che questi saperi tradizionali non siano andati perduti.
Raccogliere o coltivare?
In un articolo dal titolo volutamente provocatorio “The Worst Mistake in the History of the Human Race” (Il peggior errore nella storia del genere umano), il biologo statunitense Jared Diamond, elenca gli svantaggi derivati dall’abbandono di uno stile di vita basato su caccia e raccolta per adottare l’agricoltura stanziale. Ad esempio, la dieta dei Boscimani comprende circa 75 specie diverse di piante selvatiche. È quindi impensabile che rischino di morire di fame come accadde, a metà dell’ottocento, a decine di migliaia di agricoltori irlandesi che, invece, basavano la loro dieta quasi esclusivamente sulle patate. L’esperienza degli agricoltori Swazi dimostra che, anche chi ha scelto l’agricoltura stanziale, farebbe bene a non dimenticare le conoscenze ancestrali, perché possono sempre tornare utili.
Una sfida da vincere a tutti i costi
A causa dei cambiamenti climatici, nei prossimi decenni gli anni siccitosi in Africa meridionale saranno sempre più frequenti. Gli agricoltori dello Swaziland hanno davanti una sfida difficile da vincere: riuscire ad adattarsi in tempi brevi a delle condizioni climatiche difficilmente prevedibili. La conoscenza tradizionale dell’ecologia e delle proprietà delle specie botaniche locali è una risorsa cruciale per vincere questa sfida. Ma le erbe spontanee non sono soltanto un ripiego per gli anni siccitosi, ma hanno delle potenzialità inaspettate. Ad esempio, lo Shewula Mountain Camp, un’esperienza virtuosa di ecoturismo gestita interamente dalla comunità locale e vincitrice del “Equator Prize” delle Nazioni Unite, serve ai visitatori piatti preparati utilizzando le erbe spontanee commestibili della zona. Insomma, conoscenze ancestrali proiettate nel futuro.
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