Dopo la “lungimirante” presa di posizione del Presidente USA che da pochi giorni si è sfilato dagli accordi sul clima ratificati a Parigi solo un anno fa e in vista dell’imminente G7 dell’Ambiente, che si terrà dal 10 al 12 giugno a Bologna, credo vada lanciato un forte richiamo su una questione spinosa ormai nota da tempo, ma di cui ancora troppo poco si parla: le emigrazioni di massa per cause ambientali.
Un esodo senza precedenti
I dati più recenti sono riferiti al 2015: in quell’anno, secondo un rapporto presentato dall’IDMC-Internal Displacement Monitoring Centre, sono stati 27,8 milioni, da 127 Paesi, le persone costrette ad abbandonare la propria casa per catastrofi naturali, conflitti, violenze. Si tratta di oltre 66mila persone al giorno. E se tra queste sono ben 8,6 milioni i profughi che fuggono da guerre e violenze – in Medio Oriente e in Africa in primis –, quelle che invece emigrano a causa di disastri ambientali e da condizioni che ormai rendono invivibili i propri luoghi di origine sono molte di più: circa 19,2 milioni, sparse in 113 Paesi!
Scappano dalla desertificazione e dal collasso delle economie di sussistenza locali (come in Sudan, Etiopia, Somalia, Yemen o in Russia attorno all’ormai ex-lago Aral), ma anche dall’aumento del livello dei mari che sta iniziando a sommergere intere isole come negli arcipelaghi corallini di Salamone, Tuvalu e Carteret, nell’Oceano Pacifico. Fuggono da eventi climatici estremi che provocano ogni anno uragani sempre più violenti, inondazioni, allagamenti, frane, come in Centro e Sudamerica o nel Bangladesh.
Si allontanano da suoli resi sterili da processi di salinizzazione e di inquinamento (per esempio, da arsenico e metalli pesanti) che ha finito con il contaminare anche le falde acquifere, come in vasti territori della Cina e in altre regioni dell’Asia meridionale e orientale. Senza dimenticare le contaminazioni di acqua, aria e suolo dovute anche a rifiuti e scorie radioattive che, solo nel civile Giappone – a seguito del famoso collasso della centrale di Fukushima, dove ancora oggi nel reattore n.2 si registra un livello record di radiazioni – hanno costretto decine di migliaia di persone ad abbandonare le proprie abitazioni. Si pensi che, dal 2011 a oggi, solo il 13% degli abitanti dei cinque principali villaggi della zona è tornato nelle proprie case.
La disponibilità di risorse ambientali e in particolare la gestione dell’acqua potabile è diventata una delle principali cause di conflitto armato (tanto che dal dopoguerra a oggi sono ben 111 i conflitti nel mondo da imputarsi a cause ambientali), ma anche di delocalizzazione di intere città. Come sta avvenendo sempre in Cina (3,6 milioni di sfollati), in India (3,7 milioni) o in Nepal (2,6 milioni) a causa soprattutto della costruzione di grandi dighe per la produzione di energia che hanno sommerso intere vallate. Tra l’altro questi fenomeni di land grabbing e di water grabbing (accaparramento di terra e acqua) hanno innescati vari processi di “villaggizzazione” forzata con la distruzione del tessuto sociale locale e la nascita di enormi campi-profughi divenuti ormai permanenti. E che già negli anni Ottanta avevano causato, solo in Etiopia, un milione di morti per carestia.
Il Norwegian Refugee Council comunica che nel corso degli ultimi 8 anni si stima in circa 203,4 milioni il numero delle persone che si sono spostate a seguito di disastri vari, mentre l’Emergency events data base del Cred (Centre for research on the epidemiology of disaster) riporta che negli ultimi 20 anni sono state distrutte da catastrofi climatiche almeno 87 milioni di case in vari paesi del globo.
I rifugiati figli di nessuno
Per tutte queste persone oltre al danno c’è la beffa. Infatti, mentre i profughi che giungono da zone di guerra possono chiedere asilo politico, i cosiddetti “rifugiati ambientali” non lo possono fare e non hanno diritti, in quanto non godono di uno status giuridico internazionale. Ciò a causa del fatto che, né la famosa Convenzione di Ginevra nel 1951, né il Protocollo aggiuntivo del 1967 li annoverano tra le categorie cui si riconosce una protezione. Pertanto possono essere rispediti a casa in qualunque momento, proprio come i famosi “rifugiati economici”: peccato che sovente “casa loro” non ci sia più o sia di fatto divenuta un luogo totalmente invivibile.
Ciò sebbene non sia sempre facile distinguere le migrazioni causate da calamità naturali da quelle che hanno alla base da mutamenti ambientali indotti dall’uomo.
Ma la situazione non si ferma qui: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni entro il 2050 si raggiungeranno i 200-250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare il proprio paese!
Responsabilità internazionali
Oltre al tema del riconoscimento e dell’accoglienza di queste persone che, come abbiamo visto, saranno sempre più numerose, si pone a monte la questione di come fare per arrestare, o quantomeno rallentare, le cause di questi fenomeni. E ciò richiama innanzitutto il tema delle responsabilità. Non si tratta, infatti, solo di questioni legate all’effetto serra e, quindi, a politiche energetiche collegate al mondo del petrolio che non si vuole cambiare, ma di un sistema complesso che, nonostante tutto, continua ad alimentare un miope e dissennato approccio predatorio basato sull’accaparramento e il consumo di risorse naturali, senza preoccuparsi minimamente degli effetti di sistema: come se abitassimo due pianeti diversi! Per esempio, eclatante è la politica della Cina che, sempre più affamata di risorse e territori da sfruttare, si sta letteralmente comprando intere regioni dell’Africa centrale (per esempio in Angola) senza alcuna attenzione alle realtà locali.
Francesca Casella, direttrice per l’Italia di Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, racconta il caso dell’ Etiopia, dove da tempo è in corso un violento accaparramento di terra attraverso lo sfratto con la forza di tribù della bassa Valle dell’Omo. Operazione che riduce migliaia di persone alla fame e alla disperazione. Fenomeni già visti, ma ancora in corso, anche per altre realtà, come i territori indigeni dell’Amazzonia brasiliana.
Il noto attivista ed ex-europarlamentare Vittorio Agnoletto ha raccolto un’ampia casistica di ciò che avviene in giro per il mondo “in nome dello sviluppo” e della modernità. Dietro cui ci sono, neppure troppo celati, gli interessi economici di Paesi, multinazionali e, spesso, di governi locali corrotti e dove anche la civile Europa, Italia compresa, fa la sua parte per spartirsi la torta.
Qui il discorso si farebbe lungo e complesso e ci porterebbe inevitabilmente a parlare di temi come la giustizia, la democrazia e la libertà.
Mi limito a chiudere citando una famosa frase del Mahatma Gandhi che ben riassume il senso di tutto il discorso:
“La Terra fornisce abbastanza risorse per soddisfare i bisogni di ogni uomo, ma non per soddisfare la sua avidità”.
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