Alcuni dei più grandi esploratori italiani sono stati spinti, nella loro ricerca di terre lontane, dall’interesse scientifico. Un classico esempio è dato dai tanti naturalisti che esplorarono il sud-est asiatico nella seconda metà del XIX secolo (Elio Modigliani, Lamberto Loria, Odoardo Beccari giusto per citarne alcuni). Altri furono spinti da interessi economici, per sfruttare una delle ultime ondate del colonialismo europeo, alla ricerca di risorse naturali da sfruttare in terre lontane. Altri ancora, però, si sono spinti in luoghi mai visitati da uomini occidentali con l’unico interesse di conoscere il mondo e realtà differenti da quelle a cui erano abituati. Tra questi, un personaggio di sicuro interesse è Giovanni Battista Cerruti (1850-1914).
Figlio di un commerciante di tessuti di Varazze in provincia di Savona, Cerruti si interessò da subito ai viaggi per mare, iniziando come mozzo su una nave diretta a Buenos Aires. Partecipò in seguito a spedizioni sempre più lunghe e fece rapidamente carriera, ottenendo il titolo di capitano di lungo corso nel 1881. Si trasferì poi in Indonesia, a Batavia (l’attuale Giacarta) prima, a Singapore dopo. Qui aprì una piccola attività di lavorazione della frutta esotica, prima di iniziare le sue esplorazioni nelle terre asiatiche, alla ricerca di piante rare da commerciare.
Poco si sa di questo periodo, dato che nei suoi resoconti non parla praticamente mai di sé, però abbiamo alcune informazioni frammentarie che ci fanno capire quanto fosse abile nei rapporti con i locali e con le autorità europee: parlava perfettamente il malese e fece spesso da traduttore; visitò più volte anche la leggendaria isola di Nias, abitata da tagliatori di teste, dove accompagnò tra gli altri il celebre naturalista Elio Modigliani, e dove strinse rapporti di amicizia proprio con le temute tribù locali; il re del Siam Rama V, di passaggio a Singapore, lo cercò e, non avendolo trovato, gli lasciò in regalo un portasigarette con il simbolo regale; visitò altre popolazioni indigene locali, tra cui i Semang, i Negriti, i Sam Sam e i Batacchi, ma fu con i Mai Darat, che abitavano alcune foreste nel cuore della Penisola Malese, che Cerruti trovò la sua dimensione ottimale.
Questi, chiamati con disprezzo “Sakai” (schiavi) dai malesi, erano poco conosciuti dagli europei. Cerruti si avventurò nel fitto della giungla, tra le montagne della regione di Malacca, alla loro ricerca. Portò con sé un unico fucile, che sarebbe dovuto bastare per proteggerlo dall’attacco di tigri e tagliatori di teste. Era affascinato dalle descrizioni che aveva sentito di questo popolo, così fiero e del tutto distaccato dalla civiltà occidentale. La ricerca fu tutt’altro che facile, e anche il suo tentativo di trovare giacimenti d’oro lungo il viaggio si rivelò infruttuoso. Quattro dei cinque portatori che lo avevano inizialmente accompagnato lo abbandonarono ma, dopo varie peregrinazioni, alla fine l’esploratore ligure raggiunse la sua meta. Ad accoglierlo ci fu una freccia scagliata dal villaggio, che però colpì la fibbia della sua cintura, senza ferirlo. I nativi rimasero molto impressionati, e gli permisero di avvicinarsi.
Aiutato dal suo grande carisma e dalle sue abilità comunicative, Cerruti divenne ottimo amico dei Mai Darat al punto da essere eletto “capo supremo” con diritto di vita e di morte su di loro. Cerruti però non si servì mai di questo potere e anzi fu molto amato dai suoi nuovi sudditi, con cui trascorse 15 anni della sua vita (salvo sporadici ritorni ai territori “civilizzati”), e da cui imparò tante cose sulla vita a contatto con la natura. In particolare, Cerruti fu particolarmente affascinato dalla conoscenza che i Mai Darat avevano dei veleni, delle piante da cui estrarli e della loro lavorazione. Non a caso il suo libro di memorie su questa esperienza venne intitolato “Nel paese dei veleni”.
Cerruti fu sempre molto abile nei rapporti diplomatici, e ottenne anche un incarico di sovrintendente da parte della corona britannica su quei territori. Nel 1906 presentò, all’Esposizione Internazionale di Milano, un libro in cui descriveva le sue avventure nelle terre dei Sakai, che ebbe subito un grande successo. Pochi anni dopo fondò la Società dell’Estremo Oriente, e fornì ai musei italiani molti reperti naturalistici ed etnografici di grande valore. Morì nel 1914 a Penang in Malesia, per un’infezione intestinale. Qualche autore ha suggerito l’ipotesi che in realtà Cerruti sia stato avvelenato, per attriti con commercianti di minerali, dato che l’esploratore pare fosse l’unico a conoscere la posizione esatta di alcuni giacimenti di minerali di valore.
Qualunque sia la verità, l’eredità culturale di Giovanni Battista Cerruti è innanzitutto una descrizione meticolosa di alcune popolazioni indigene pressoché sconosciute fino al suo arrivo. I suoi testi che descrivono l’esperienza sono vividi, appassionanti, scorrevoli (qui e qui si possono leggere online alcuni suoi scritti, tradotti in inglese) ma, più di ogni cosa, il ricordo dell’esploratore deve essere legato alla sua capacità di creare un autentico contatto con le popolazioni native, capendo le loro culture, i loro interessi, la loro visione del mondo.