Il traffico di cuccioli è un fenomeno datato, iniziato verso la fine degli anni ’80 del secolo scorso, quando fu scoperto il primo focolaio della tratta dei cuccioli: il mercato di animali che si teneva settimanalmente a Pecs, in Ungheria. In questo mercato, fra gli altri, esponevano allevatori casalinghi di cani, che vendevano i loro cuccioli esposti nei bauli delle auto.
Con il passare del tempo molti europei hanno iniziato a fare la spola fra i loro Paesi e l’Ungheria, per comprare cuccioli di cane non puri ma somiglianti ai cani di razza. I cuccioli venivano venduti nei negozi, quasi sempre spacciati per animali italiani grazie ai pochi controlli e a norme molto farraginose.
In quel periodo iniziarono a prendere piede le famigerate “Fiere del cucciolo”, inizialmente ospitate sotto gli chapiteaux di circensi che avevano capito che quello poteva essere un grande affare.
Dai cuccioli si guadagnava due volte: la prima con il biglietto di ingresso, perché queste mostre richiamavano frotte di persone, la seconda a fine fiera, vendendo i cani che venivano consegnati in mezzo alla strada, perché nelle mostre non si poteva vendere.
Dopo ogni fiera iniziava poi la processione di acquirenti che lamentavano il fatto che il cane appena comprato si fosse ammalato gravemente, di patologie virali, quasi sempre cimurro o gastroenterite. E non mancavano certamente i cuccioli morti a distanza di uno o due giorni dall’acquisto.
Poi le fiere si trasferirono nei palazzetti e molti degli organizzatori di questi traffici, che coinvolge sempre anche veterinari compiacenti, erano gli stessi che commerciavano animali esotici, quasi tutti con una base operativa in Emilia-Romagna, che in quegli anni divento l’epicentro del traffico.
Le strategie dei commercianti/trafficanti cambiavano a seconda del momento, delle normative, della capacità operativa che erano in grado di dispiegare. Chi vendeva i cuccioli spacciandoli per italiani, chi usava passaporti contraffatti, mentre altri facevano viaggiare i cani in doppifondi oppure nascosti dietro cassette di merci deperibili.
In un’indagine che avevo seguito personalmente i microchip per far apparire i cani italiani, in caso di controllo, facevano giri solo apparentemente inspiegabili. I microchip hanno una numerazione e sono tracciabili, perché chi li fabbrica li fattura indicando i singoli lotti. Per evitare problemi, i commercianti italiani vendevano i microchip comprati in Italia a società di San Marino, che li spedivano in Est Europa per farli tornare innestati su cuccioli della tratta, che una volta passato il confine erano già stati iscritti nelle anagrafi, da veterinari compiacenti che nemmeno li avevano visti. Potendo così essere messi in vendita a due mesi, come cani nati in Italia.
Nel 2010 anche il nostro Paese fece una legislazione sull’import dei pet, che in precedenza era stata modificata anche a livello europeo. Questo ha portato ancora un cambio di strategia dei trafficanti e quindi, nel corso del tempo i cani risultavano effettivamente provenire da importazioni dai Paesi al centro dei traffici, come Ungheria e Slovacchia, dotati di regolare passaporto e regolarmente segnalati alle autorità sanitarie. A ogni partenza un messaggio delle autorità del paese d’origine raggiungeva le stesse autorità del Paese di destinazione, per consentire eventuali controlli a destino. Pochi e spesso sommari, perché comportavano prelievi di sangue a campione e invio dei campioni allo Zooprofilattico delle Venezie. In fondo una seccatura che troppi volevano e vogliono evitare.
Tutto apparentemente regolare, quindi, ma quella che non era quasi mai reale era l’età dei cuccioli, che non potevano arrivare in Italia con un’età inferiore ai 3 mesi e 21 giorni. Per poter essere vaccinati contro la rabbia in modo corretto. Cuccioli troppo grandi per arrivare nei negozi, dove gli acquirenti li volevano, e continuano a volerli, sempre più piccoli. Diventando i primi complici dei trafficanti di cani.
(continua…)
Leggi qui:
Indagine sul traffico di animali / 1
Indagine sul traffico di animali / 2
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