In questi giorni si parla tanto di Europa e dell’importanza di sentirsi europei.
L’Europa è imprescindibile, affermano in molti. Le ragioni esibite sono perlopiù di carattere economico e finanziario. Pochi si avventurano in questioni di carattere storico, culturale, sociale, antropologico.
L’Europa è la culla della civiltà, si sente ripetere spesso. Vero, ma solo in parte. Non si può ignorare cosa hanno rappresentato nel mondo antico Mesopotamia, Egitto, Cina, la valle dell’Indo.
L’Europa è un continente che coltiva la pace. Vero, ma anche questo solo in parte. Potremmo dire che la guerra è antica quanto l’Europa e viceversa. Sul nostro continente sono impresse le stimmate delle lance, delle spade, dei cannoni e dei carri armati. Sempre sul nostro continente si è consumato tra il 1991 e il 2001 un lungo conflitto, noto come guerre yugoslave. E spesso l’Europa della pace si prepara a fare la guerra.
Restano poi da fare ancora i conti con un passato a volte tremendo, fosco, che non vogliamo più ricordare. Di tanto in tanto sulla stampa e sul web ricompaiono foto raccapriccianti che documentano gli orrori perpetrati dagli europei. Per esempio in Africa. C’è una foto scattata a inizio Novecento nel Congo belga dalla missionaria inglese Alice Seeley Harris: ritrae un padre mentre osserva i piedi e le mani mozzati di sua figlia, una bambina di cinque anni uccisa e smembrata come punizione perché il suo villaggio non aveva raccolto abbastanza gomma, perlomeno non quanta richiesta dal regime imperiale. Nel saggio di Viviano Domenici “Uomini nelle gabbie” è raccontato invece il lato oscuro delle Esposizioni Universali dal 1870 al 1940: tra i tanti tristi episodi c’è quello dei congolesi messi in mostra a Bruxelles nel 1897, chiusi in recinti su cui campeggiava la scritta: «Non dare da mangiare ai negri, sono nutriti». Tanti genitori bianchi – in quella che oggi è considerata la capitale dell’Europa – portarono i loro bambini a guardare l’angosciante zoo umano.
Se dobbiamo sentirci tutti europei, ebbene siamo discendenti anche di quegli europei.
Parlare del Congo in Europa è come parlare di corda in casa dell’impiccato. Perché lì si sono consumati per decenni molti dei più brutali episodi del nostro colonialismo, tali da far apparire perfino meno brutali le violenze compiute nei secoli da Spagna, Portogallo, Francia, Olanda, Inghilterra e anche Germania e Italia.
Gli effetti delle politiche espansioniste e prevaricatrici perdurano. Come ha scritto Tim Marshall nel libro “Le 10 mappe che spiegano il mondo”, «gli Africani sono ancora parzialmente prigionieri della geografia politica costruita dagli europei». Una geografia composta di confini arbitrari e bugiardi con cui noi europei abbiamo disegnato parte di un immenso continente usando come criterio il livello di penetrazione nei territori di forze armate e uomini di affari, piuttosto che il senso di appartenenza delle popolazioni locali e il modo in cui intendevano organizzarsi.
Il più grande buco nero di questa lunga vicenda si chiama Repubblica Democratica del Congo. Scrive ancora Marshall «è la terra in cui Joseph Conrad ambientò il suo romanzo “Cuore di tenebra”, e rimane ancora avvolta nelle tenebre».
Re Leopoldo II del Belgio dal 1885 usò il Congo come sua proprietà personale: lo saccheggiò, vi attinse risorse per accrescere la propria ricchezza. Fu un’occupazione brutale dall’inizio alla fine: quando nel 1960 i belgi se ne andarono, lasciarono un paese privo delle infrastrutture necessarie allo sviluppo e difficilmente unificabile. Difatti dopo la tirannica dittatura di Mobutu, che per oltre vent’anni perseverò nel saccheggio delle risorse congolesi per sé, i propri familiari e un ristretto gruppo di accoliti, divampò la guerra civile. Dal 1996, con forti recrudescenze nel 1998 e poi nei due decenni successivi, questa terra non conosce la pace. Si stima che il conflitto a intermittenza abbia fatto cinque milioni di vittime, molte delle quali civili. Eppure se ne parla poco, quasi mai.
I paradossi della Repubblica Democratica del Congo sono molti, tra di essi figura proprio l’incredibile ricchezza di risorse naturali: oro, diamanti, cobalto, rame, coltan, legno pregiato, avorio e anche uranio, petrolio, manganese, piombo, zinco. Nell’instabilità fanno affari le organizzazioni criminali transnazionali che fomentano gli scontri. I beni, in particolare quelli minerari, finiscono poi nei mercati degli utilizzatori finali e i paesi industrializzati con le proprie multinazionali continuano a farne uso.
Ora, non si vogliono qui riproporre le tesi di chi sostiene che di tutti i mali dell’Africa sia causa unica ed esclusiva l’Occidente, né ricorrere a semplificazioni manichee per cui l’uomo bianco è malvagio e imperialista, mentre quello nero è mite e sfruttato.
Tuttavia il processo di costruzione di un senso di identità richiede la conoscenza del proprio passato. E la storia degli europei, dunque la nostra storia, è fatta anche di sfruttamenti selvaggi delle colonie, deportazioni e genocidi con cui abbiamo cancellato intere generazioni. E di uno strozzinaggio subdolo che tutt’oggi serpeggia fra i nostri consumi quotidiani. Se fingiamo di ignorare tutto questo e degli europei continuiamo solo a magnificare gli indici di sviluppo e il tenore di vita, le mirabolanti espressioni artistiche e le scoperte scientifiche e tecnologiche – tra cui il computer con cui scrivo questo articolo – continueremo ad avere radici fragili e a tramandare una visione del mondo che vede negli altri – un tempo animali da ammaestrare e barbari da civilizzare – oggi popoli da respingere e tenere asserviti ai nostri vacui desideri.
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